Un uomo e una donna, ormai arrivati nell’ultima stagione della vita, si incontrano per caso e riscoprono l’amore: forse tra i due inizierà una storia. Questa idea è un canovaccio molto frequentato dal cinema. È quasi una variazione sul tema della «commedia del rimatrimonio», di cui parla il filosofo Stanley Cavell a proposito di alcuni film della Hollywood degli anni trenta. È un’idea molto popolare nel cinema globalizzato del nostro tempo: se ne trovano facilmente esempi sia americani che europei. È anche l’occasione per stabilire canali di comunicazione tra universi di star appartenenti a diverse cinematografie nazionali: pensiamo all’incontro tra Sophia Loren e Walter Matthau in That’s Amore del 1995.

Cosa succede quando un’idea del genere entra nell’orizzonte di una cinematografia dai tratti molto particolari come il cinema iraniano? È una domanda che è impossibile evitare di fronte a Il mio giardino persiano di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha. Si tratta di un film inaspettato per il contenuto e più ancora per la struttura narrativa. Mahin è una donna sulla settantina, vedova da trent’anni.

Vive a Tehran, in un appartamento con un bel giardino che è la sua unica occupazione. I figli sono emigrati all’estero. Mahin vede solo di rado il suo gruppo di amiche. Non si sveglia prima di mezzogiorno e passa le lunghe notti insonni ascoltando musica e ballando da sola. Le sue giornate trascorrono vuote e uguali tra loro, pervase dalla malinconia e dalla solitudine. I timidi tentativi di rompere la monotonia falliscono tutti. Va in un lussuoso hotel un tempo alla moda, ma è sola: dopo la rivoluzione islamica, non vengono più invitati i cantanti occidentali della sua giovinezza come Al Bano e Romina. Mahin non sa nemmeno leggere il menù con il telefono. E comunque anche i gusti sono cambiati: non servono più il café glacé, ma un affogato al caffè.

Mahin va al parco, sperando di conoscere qualche coetaneo che si tiene in forma correndo. Ma lei si sveglia a mezzogiorno, quando il parco è vuoto. Incontra solo una ragazza, che la polizia morale avrebbe arrestato per il suo abbigliamento inappropriato se lei non fosse coraggiosamente intervenuta. L’incidente, che all’inizio la scuote, la rigetta poi nella tristezza. Allontanandosi, la ragazza dice a Mahin che almeno le donne della sua età da giovani, prima della rivoluzione, potevano vestirsi come volevano. Così involontariamente le ricorda che ora è una donna anziana

Un film sulla longevità del desiderio è la chiave per penetrare un mondo in crisi com’è l’Iran contemporaneo sotto il regime degli ayatollah. Il personaggio di Mahin è l’intercessore di questo mondo. Una donna sola e stanca, con i figli lontani, ma pronta a innamorarsi di nuovo è la nostra guida dentro un Paese dove ai giovani è impedito di coltivare i propri sogni e non è nemmeno possibile assicurare ai vecchi una vita serena. Come in un incubo perfetto, il regime fondamentalista ha creato l’opposto di una società dove sia possibile nutrire sentimenti puri, circondati dall’affetto delle persone care. La storia di Mahin è una metafora di questo mondo. D’altronde il nome della donna, vagamente desueto, evoca una delle eroine più celebri dei poemi cavallereschi della letteratura classica persiana. Si tratta di Mahin Banou, regina d’Armenia e madre della principessa Shirin, la protagonista del poema Khosrow e Shirin di Nezami. Come il poema del XII secolo, così il film celebra la libertà, la gioia di vivere e gli autentici sentimenti umani contro un’ortodossia oscurantista, capace solo di imporre solo un rigido sistema di precetti da osservare.

La nostra Mahin a un certo punto del film si imbatte casualmente in Faramarz. Entrambi pranzano da soli in un ristorante dove numerosi pensionati vanno a spendere i buoni pasto offerti dal governo. Mahin ascolta la conversazione tra Faramarz e un gruppo di suoi vecchi commilitoni. Scopre così che l’uomo lavora come tassista poco lontano da lì e vive solo. La donna decide di invitarlo da lei con lo stratagemma di farsi accompagnare a casa. Comincia così, nello spazio ristretto della casa di Mahin e nel breve tempo di una notte, una storia d’amore in cui un uomo e una donna riscoprono il piacere di bere insieme, dirsi parole gentili, ballare ascoltando la musica che amano, facendo la doccia vestiti come due adolescenti brilli usciti da un film americano. Ma la vita riserva un’amara sorpresa ai due novelli innamorati.

Come dicevo, l’aspetto sorprendente del film sta nella sua struttura narrativa più ancora che nell’argomento. Fino all’improvvisata serata galante, di cui la torta citata nel titolo originale sarebbe stato il momento culminante, il film si è presentato come una commedia delicata, giocata sul filo tra malinconia e ironia, sulla condizione della vecchiaia nella società contemporanea. Ed è l’occasione per fare un inventario delle cose vietate in Iran e per celebrare quel luogo di libertà segreta che è la casa, scegliendo il punto di vista insolito di una donna vedova, sola e in là negli anni. Ma la festa clandestina, in cui Mahin e Faramarz condensano trent’anni di desideri negati o dimenticati, è anche il momento in cui la commedia si rovescia in tragedia. Provato dagli eccessi della serata, Faramarz, malato di cuore, si adagia sul letto e muore. Mahin, che era occupata a preparare il dolce, lo ritrova lì. In questa tragica fatalità si concentrano per lei tutte le catastrofi possibili. 

La donna, che si era chiusa all’amore per un così lungo tempo, lo ha perduto di nuovo dopo pochi attimi di felicità. Inoltre, si ritrova il corpo di un estraneo nel letto, prova irrefutabile della sua immoralità di fronte al mondo. Il significato del film sta proprio in questa forma che non può decidersi tra commedia e tragedia. Il mio giardino persiano parla di una condizione esistenziale che è allo stesso tempo una situazione politica: le due dimensioni sono legate insieme con una profondità e una violenza che è difficile comprendere. Le donne iraniane, per definizione il soggetto da disciplinare e punire secondo il regime patriarcale degli ayatollah, non possono scegliere tra recitare la commedia o interpretare la tragedia, tra ingannare il potere o sacrificarsi per metterne a nudo l’ingiustizia. Il rovesciamento improvviso del racconto esibisce una condizione sospesa, al  punto che tutti i gesti diventano ambigui. 

Di cosa si dispera Mahin? Di aver perduto Faramarz o di poter essere scoperta e accusata di relazioni illecite? Per uscire da questa incresciosa situazione, la donna decide di seppellire l’uomo nel giardino: si sente come una criminale che nasconde le prove del suo delitto? O è un’innamorata che realizza il desiderio dell’amante di essere sepolto vicino a lei sotto un albero? I gesti con cui prepara il cadavere prima della sepoltura e gli cuce intorno un improvvisato sudario, fatto con una coperta, ricordano quelli di un rituale. In un mondo dove tragedia e commedia sono entrambe impossibili, in un mondo oppresso dall’osservanza delle regole religiose, è come se la sola via di fuga fosse quella di reinventare un rito capace di dare voce alla disperazione.

Riferimenti bibliografici
S. Cavell, Alla ricerca della felicità, CUE Press, Imola 2022.
Nezami, Khosrow e Shirin, Ariele, Milano 2017.

Il mio giardino persiano. Regia: Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha; sceneggiatura: Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha; fotografia: Mohamad Hadadi; interpreti: Lili Farhadpour, Esmaeel Mehrabi, Mohammad Heidari, Mansoore Ilkhani; produzione: Filmsazan Javan, Caractères Productions, HOBAB, Watchmen Productions; distribuzione: Totem Films; origine: Iran, Francia, Svezia, Germania; durata: 96′; anno: 2024.

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