È un tema grande e grave, oltre che eccezionalmente complesso, quello che occupa l’ultimo, notevole lavoro di Michele Guerra, Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini. Esso coincide con «quelle che si potrebbero definire – scrive l’autore – le condizioni di visibilità della Shoah, vale a dire i modi attraverso cui si è cercato, dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, di far vedere la tragedia dei lager e il loro orrore».
Quello di Guerra è, a tutti gli effetti, un libro di teoria dell’immagine: attraversando l’ampio dibattito, teorico e filosofico, che il tema della rappresentabilità della Shoah ha nutrito nei decenni, e in particolare negli ultimi, il volume si concentra, in una prospettiva teorico-analitica, su alcuni “oggetti” di peculiare, e talora inaggirabile esemplarità (ma anche su esempi meno noti e particolarmente significativi), che di volta in volta deriva dalla letteratura (con motivi tratti da Wiesel o da Levi), dalla fotografia (l’Album Auschwitz), dal cinema soprattutto (Resnais, Lanzmann, Farocki, fino ai lavori, più recenti, di László Nemes o di Sergei Loznitsa), ma anche da opere scaturite dalle pratiche di riuso, di risemantizzazione, di rilocazione (museo, web) della fotografia digitale.
L’idea che attraversa trasversalmente il libro (ma che è discussa fin nelle sue primissime battute) è che accanto ai «molti prodotti divulgativi o smaccatamente commerciali» che negli anni hanno accostato la questione della rappresentazione della Shoah, sia possibile individuare e descrivere, nei lavori più rigorosi e più meditati, una «seppur minoritaria consapevolezza formale e stilistica che ha inciso sulle modalità di trasmissione e di narrazione della Shoah». Guerra ne interroga alcuni dei tratti individuanti – ragionando su «questo lavorio delle forme di fronte al disagio storico, politico, civile, culturale e artistico che i lager ci hanno lasciato in eredità» –, che rintraccia in diversi dei suoi oggetti d’elezione, non senza rilevare le differenze, talora notevoli o notevolissime, tra l’uno e l’altro.
Ma, più in profondità, il suo è un libro sullo sguardo (dell’operator, ma anche dello spectator, per dirla con Barthes) ed è per questo che, nel suo procedere, non può non essere attraversato, più e meno esplicitamente, da questioni fondamentali che grosso modo possono essere riassunte come segue: che ne è dello sguardo dopo la Shoah? Che ne è stato nella seconda metà del XX secolo e che ne è oggi, nel secolo che «assiste sgomento a un non semplice passaggio di consegne storico e testimoniale»?
Si tratta di considerare, da un lato, la necessità, non negoziabile, di auto-interrogazione di uno sguardo formativo che si accosti alla questione dello sterminio – sapendo fin da subito che per nessuna via esso potrà mai risultare appropriato e che sarà invece chiamato a far sentire, e propriamente a mostrare la propria inadeguatezza quale strumento tanto incerto quanto necessario – e dall’altro, la necessità di pensare l’atto stesso del comporre immagini (ma anche del guardare immagini) a partire «dalla svolta, ha scritto una volta Montani, che i campi hanno impresso all’istituto stesso della visione». È per questo, dice Guerra, che «il pensiero sull’immagine della Shoah ha finito per diventare pensiero sull’immagine in quanto tale». Ciò non significa evidentemente usare la Shoah per parlare d’altro, come giustamente l’autore rileva, ma invece «riconoscerla come vertice estremo di un rapporto tra vedere, immaginare e sapere che continua a svilupparsi nel tempo».
Il primo capitolo muove dalla letteratura (concentrandosi sulle articolazioni dello sguardo ne La notte di Wiesel e in particolare sulle sue ultime battute), attraverso cui inquadra uno dei fondamenti della questione di cui si fa carico: la rappresentazione della Shoah ha evidentemente da fare con una poiesis che è già sempre chiamata a interrogare se stessa e i propri gesti. Quindi si confronta con la fotografia, e in particolare con un’immagine-documento: una foto (dal cosiddetto Album Auschwitz) che ritrae, al loro arrivo a Birkenau, dove furono subito uccisi, i fratelli Sril e Zelig Jacob, undici e nove anni, ovviamente scattata dalle SS.
All’analisi della foto e in particolare degli sguardi dei due bambini, si devono alcune delle pagine più intense del libro: entrambi guardano fuori campo, ma Zelig guarda in macchina, guarda il suo carnefice che lo fotografa e interpella per sempre noi che guardiamo. Nell’inaudito che si sta compiendo attorno a loro e che essi stanno guardando, che preme senza sosta sui bordi del visibile che questa immagine-lacuna, con Didi-Huberman, trattiene e mostra, in quello che non si vede, si fa avanti l’inimmaginabile del campo che reclama di essere immaginato. È un assunto che orienterà tutto il volume.
Oltre la loro stessa volontà (come in questo caso) o a partire dal loro più meditato proposito formativo (come nel caso dei migliori film sulla Shoah, la cui rappresentazione, dice Guerra, «è non solo possibile, ma necessaria», purché si riconosca, con Didi-Huberman, come con Rancière, «che si rappresenta una “inadeguatezza”, una “soppressione”»), certe immagini chiedono di essere lette e interrogate, di essere viste e pensate, a partire da ciò che non mostrano, che non contengono, dall’invisibile che le accompagna e le struttura. Occorre, dice Guerra con Debray, perorare la causa dell’invisibile, «un invisibile che dà forma attraverso un forza di pressione». «Noi non vedremo mai Auschwitz – nota l’autore concludendo la sua analisi –, in nessuna fotografia, in nessun film, in nessun resoconto. Ma non rimarremo ciechi se comprenderemo cosa vuol dire tenere fissi gli occhi nell’inenarrabile».
Il capitolo successivo apre al cinema e incontra Notte e nebbia (Resnais, 1955), ineludibile per ogni discorso incentrato sui modi audiovisivi di rappresentazione dello sterminio, punto d’avvio, dentro la storia del cinema, di un confronto con la Shoah che lavora sulla consapevolezza della propria lacunosità e ancora – per un’intera corrente di pensiero sul cinema (che va almeno da L’abjection di Rivette a Il carrello di Kapò di Daney) – termine di paragone, decisivo nella definizione delle pratiche del cinema moderno, per un’idea della composizione che nella ricerca della giustezza rintracciava il proprio fondamento.
Per comprendere, del film, la «forzata ricerca sull’oltre dell’immagine», dopo averlo persuasivamente inquadrato a partire dalla produzione corta di Resnais, Guerra vi si misura in particolare concentrandosi sull’interstizio, che il film domanda incessantemente di pensare, tra le atroci immagini d’archivio in bianco e nero e quelle, attonite, a colori, sul “presente” di Auschwitz, dunque sul montaggio, su «quel taglio invisibile che separa e connette le immagini nel loro oltre, al punto da far scrivere a Daney che la forza del film sono le sue “non-immagini”».
Segue un capitolo su Il figlio di Saul (Nemes, 2015). Situato nel territorio rischiosissimo della finzione, ispirato (non per i contenuti, spiega Guerra, ma per l’atroce «senso di precarietà» che le informa) alle testimonianze scritte sepolte nel lager dai membri del Sonderkommando di Auschwitz e alle celebri quattro fotografie che uno dei componenti del Sonderkommando scatta dal crematorio V, incentrato su una vicenda che solo a riassumerla fa tremare (un membro del Sonderkommando intende dare sepoltura, nel lager, al corpo di un bambino), Il figlio di Saul è letteralmente fondato sulla nozione di restrizione della visibilità, su «una ricercata ottusità visiva e sonora»: per (quasi) tutto il film la macchina da presa resta incollata, stretta sul volto e sul corpo di Saul. Egli guarda ma di regola noi non vediamo che cosa.
La sua figura occlude la visione che, fatta eccezione per il protagonista, è, attorno a lui, dominata dal fuori fuoco e spesso travolta da un sonoro frastornante. Correndo fino in fondo tutti i rischi che può correre, Nemes si assume il compito, scrive Guerra, di «redistribuire il non misurabile dentro la visibilità misurata dell’inquadratura» e realizza un film che fa del difetto della visione la forma delle sue immagini e insieme «resiste alla proibizione dell’immaginare, conducendo il visibile nel mezzo del suo penare».
L’uso pubblico degli spazi della memoria, la produzione di immagini che vi è connessa, i loro possibili processi di riconfigurazione nutrono ampiamente il passo successivo, ancora tutto inscritto nel presente. A partire da un ampio paradigma interpretativo, e concentrandosi ora sulle pratiche di riuso della fotografia digitale, Guerra riconduce alle forme di un pensiero aperto, problematico, che si muove «sull’instabilità dell’immagine, sull’incertezza del senso e sull’impossibilità di dire con chiarezza che cosa e fin dove l’immagine può comunicare», il lavoro che Mark Adelman conduce in Stelen (2009-2011), mentre, pur condividendo il proposito di condanna che lo muove nella «battaglia che ingaggia ad armi pari col il web», ascrive alle forme di un pensiero prescrittivo, che sigilla in una pienezza di senso e in una comprensione dell’evento tanto determinate quanto impossibili, il lavoro trasformativo che in Yolocaust (2017) Shahak Shapira effettua su fotografie (come in Adelman) raccolte dal web e (come in Adelman) originariamente scattate nel Memoriale per gli Ebrei assassinati d’Europa di Eisenman, a Berlino.
Ma è ancora attorno a un film, Austerlitz (Loznitsa, 2016), che con videocamere fisse filma i turisti in visita nei lager (a Sachsenhausen), che Guerra prolunga la sua riflessione: filmando i turisti che si aggirano negli spazi del campo, che percorrono ciò che, dice Guerra, sembra assumere «la forma dell’inattraversabile», di cui e con cui producono immagini – «la cosa più tragica e più esplicitamente memorabile di Austerlitz sono i selfie» -, Loznitsa, osserva lo studioso, «non ha fatto un film sulla Shoah», ma «uno dei saggi visivi più acuti sulla distruzione dell’esperienza e sulla produzione tecnica della dimenticanza».
È infine nell’ultimo capitolo che il libro attiva il confronto, atteso dal lettore, con il monumentale Shoah (Lanzmann, 1985). Tutti sanno come Shoah è fatto: un film costituito unicamente da interviste filmate, dalla parola, dai volti, dai corpi dei testimoni, e da luoghi; assoluto rifiuto di ogni immagine d’archivio, nessuna rappresentabilità possibile dell’orrore che non sia consegnata a quelle voci, a quei corpi, a quegli occhi che hanno visto.
Il film contraddice di fatto qualsivoglia modello di scrittura audiovisiva della Shoah; non ci sono immagini, per Lanzmann, che possano essere convocate per parlare dello sterminio (al contrario di quanto farà poi il Godard delle Histoire(s) du cinéma, 1988-98, per cui tutte le immagini non parlano che di questo), nega ogni immagine-lacuna e crede invece, dice Guerra, «a un’immagine piena e assertiva, che mostra solo quel che può mostrare e che alla pressione dell’esterno preferisce il montare di un’instabilità interna che tutt’a un tratto parla oltre il mostrabile». Non abbiamo altro di fronte che volti, corpi e paesaggi e tuttavia gradualmente
l’insostenibilità del loro racconto invade in modo sorprendente il nostro campo visivo […] La Shoah è improvvisamente quei corpi, luogo e parola insieme […], sfida per un’immagine che la cerca sapendo di non poterla trovare se non dove continua a esistere veramente, e cioè nelle membra, negli occhi e nelle voci di chi è tornato da Auschwitz, di chi ci ha abitato vicino, di chi ne ha avuto responsabilità.
Shoah è la configurazione più estrema, rigorosa e severa della causa dell’invisibile. Il libro si chiude su Images of the World and the Inscription of War (Farocki, 1988), film-saggio tra i più potenti e compiuti del suo autore, in cui, dentro il flusso stratificato di immagini diverse, Farocki si misura lungamente con Auschwitz: concentrandosi, in particolare, sulla famosa fotografia aerea con cui, nell’aprile del 1944, sorvolando obiettivi sensibili industriali, tra cui la IG Farben, senza volerlo gli Alleati fissarono in immagine, per la prima volta, Auschwitz, nel pieno della sua attività, quindi su una foto dell’Album Auschwitz che ritrae una deportata in cammino di cui il cineasta interroga lo sguardo. Il lavoro sulla fotografia aerea è particolarmente profondo: Farocki «si vuole avvicinare, vuole provare a scendere dentro il campo», ne osserva le zone in ripetuti dettagli, accosta fonti e documenti diversi, altre immagini, si sofferma sulle file di minuscoli, infinitesimi punti scuri in immagine, i deportati.
Auschwitz era lì mentre l’orrore durava, captato dalla registrazione fotografica, ed è difficile comprendere come non sia stato immediatamente visto. E quei punti scuri, dice Guerra, «sono lì sotto i nostri occhi, sono la Shoah, ma non li riusciamo a vedere […], sono l’inverso della visibilità […] e l’estrema condanna che il discorso di Farocki porta con sé».
Michele Guerra, Il limite dello sguardo. Oltre i confini delle immagini, Raffaello Cortina, Milano 2020.