La maggior parte di quello che sappiamo sul teatro di Anna Magnani viene da scritti biografici in cui frequenti sono i virgolettati con cui è proprio lei, in prima persona, a raccontare: «devo tutto a Vera Vergani»; «ho scelto questo mestiere perché volevo essere amata»; «la vera scuola è il palcoscenico»; «non potevo essere contemporaneamente attrice e moglie»; «il pubblico bisogna renderlo partecipe da vicino, il più vicino possibile», ecc. Si tratta principalmente di stralci di interviste, un corpus di fonti apocrife che permettono di rilevare tanti aspetti tecnici ed estetici del suo lavoro in palcoscenico: per esempio la difficoltà di memorizzare un nome troppo lungo quando, appena diciannovenne, pronuncia la sua prima battuta in uno spettacolo per un pubblico pagante (Partita a scacchi di Giuseppe Giacosa, direzione artistica di Dario Niccodemi, Teatro Manzoni, 1927) o quando già nota in tutto il mondo si preoccupa di non riuscire a far arrivare la voce all’intera platea (La Lupa di Giovanni Verga, regia di Franco Zeffirelli, Teatro La Pergola, 1965).
I ricordi di Magnani, sempre da verificare in una prospettiva di ricostruzione storica, cominciano a circolare sempre più fitti da quando nel 1946 vince il Nastro d’argento come attrice non protagonista per Roma città aperta di Roberto Rossellini (1945). Magnani, che come precisa il figlio Luca «non amava ricordare», contribuisce dunque in prima persona a costruire una propria epopea personale che alimenta in maniera sostanziale la costruzione di un personaggio divistico in cui pubblico e privato sono sempre mescolati. L’eroismo biografico che ne consegue investe naturalmente anche il suo teatro: La Magnani, spiega, sarebbe nata dal dolore per la morte della nonna durante le tournee degli anni Venti, mentre per recitare nel testo verghiano avrebbe rinunciato a un contratto milionario con Hollywood.
Una sorta di confusione tra le due pratiche performative (il recitare su un palcoscenico o su un set) che è alimentata anche dai ruoli in cui sul grande schermo Magnani interpreta un’attrice: in Teresa Venerdì di Vittorio De Sica (1941), per esempio, è Loletta, una soubrette di varietà; è Camilla-Colombina in una compagnia di comici dell’arte nella Carrozza d’oro di Jean Renoir (1952); mentre in un episodio del film collettivo Siamo donne (1953) è se stessa diretta da Luchino Visconti al suo arrivo in teatro dove, dopo una variopinta litigata con il tassista che l’ha accompagnata fin là, si esibisce ne La fioraia del Pincio, uno dei numeri più apprezzati dal pubblico fin da quando lo aveva creato una prima volta nella rivista di Michele Galdieri Quando meno te l’aspetti (1940). Basta lasciar scorrere le immagini dei pochi esempi appena citati, tra i tanti, per vedere il volto di Magnani prendere corpo e invadere con lo spazio filmico anche quello sociale. I suoi occhi grandi e profondi raccontano più delle parole, suscitano poesia e indirizzano la stessa critica teatrale a indagare il suo lavoro in scena con il linguaggio del cinema.
Roberto De Monticelli, per esempio è ben consapevole del paradosso visivo che sta sollecitando quando scrive che poche attrici, oltre a lei, sarebbero capaci di realizzare su un palcoscenico «una specie di grande primo piano teatrale di straordinaria evidenza». È il gennaio 1966 e il critico è a Milano dove l’ha vista recitare di nuovo nei panni di gnà Pina, il personaggio del racconto di Verga scelto per lei dall’amico Zeffirelli. La Lupa in soli otto mesi dal debutto fiorentino ha già girato parte dell’Europa continentale e si appresta a una tournée oltre la cortina di ferro. È sicuramente lo spettacolo teatrale più replicato e visto di Magnani, che a quell’altezza cronologica è assente dalle scene ormai da più di dieci anni. Il suo ritorno a teatro, alla soglia dei sessant’anni, desta scalpore, emozione, dibattito. Se ne legge su giornali e rotocalchi di mezzo mondo: da Lisbona a Copenaghen, da Rejka a Amsterdam, da Mosca a Varsavia, fino a New York. E chiaramente la dimensione retorica dei discorsi che circolano (insieme alle tante foto del volto dell’attrice) amplifica l’epopea personale rischiando di ridurre a suggestiva allusione quella specie di primo piano teatrale su cui riflettono spettatori competenti. Mentre è molto di più.
Per ritrovare quel momento è necessario decostruire l’immagine monumentale con cui Magnani è entrata nella memoria culturale europea e rivolgersi al materiale documentario esistente che, nel caso di questo spettacolo, è moltissimo. Ripartire da quel che resta della Lupa (gran parte è conservato all’Archivio Zeffirelli di Firenze) permette di tratteggiare la resa scenica dell’attrice al lavoro sul principale tema del dramma verghiano: il desiderio erotico di una donna verso il suo stesso genero. Gli scatti realizzati dal fotografo ufficiale del Maggio Musicale, produttore della Lupa, permettono di ripercorre quasi tutto lo spettacolo, dall’inizio fino all’enigmatico primo piano. E confermano che l’analisi possibile non riguarda tanto il volto dell’attrice, quanto le prossemiche, il movimento, il vuoto e il pieno dello spazio in cui è inserito il corpo di Magnani. Il progetto di illuminazione e gli appunti sulle luci di Zeffirelli aiutano a leggere il copione del regista in questo senso; non solo perché rendono visibile la relazione tra tempo drammatico e tempo scenico, ma anche perché spiegano che in teatro l’attenzione dello spettatore è guidata da cambi di bilanciamento dell’intensità luminosa e dalle differenti direzioni della luce. E questi, nel caso della Lupa, sono predisposti fino a un certo punto.
Quando Magnani si presenta al pubblico per la prima volta chi fa le luci la segue «a vista». Sa quali proiettori usare, conosce la direzione da cui entrerà ma non ha dei tempi predisposti, mentre li ha per esempio per l’entrata di Osvaldo Ruggieri, l’attore che interpreta il protagonista maschile. L’attrice arriva con un fascio di manipoli sul capo facendosi spazio in un’aia all’imbrunire dove, tra covoni di fieno e attrezzi agricoli, si allude al possibile triangolo amoroso. Intanto sorge la luna, i contadini suonano e danzano e anche lei canta uno stornello. Poi pian piano la scena inizia a svuotarsi e l’attrice può occupare pienamente lo spazio visivo e esibirsi in un monologo interiore che di replica in replica non smette di stupire per la sua forza attrattiva e la sua carica enigmatica. Magnani, sola su un covone di fieno («un letto», si legge nel copione), parla a voce bassissima, si rannicchia su sé stessa, dà le spalle al pubblico, si muove poco e si abbandona a profondi silenzi, tra cui una pausa lunghissima prima di decidersi a dare sua figlia in moglie all’uomo desiderato.
L’emozione suscitata da questa scena si deve al modo in cui il suo corpo sta riempiendo in quel preciso momento tutto lo spazio (scenico, drammatico e sociale). Ma è una lenta progressione, sapientemente costruita in ogni aspetto, quella che porta Magnani a provocare questa prossimità artificiale sulle scene degli anni Sessanta. Una durata che non riguarda solo il tempo di quello spettacolo ma quello di una vita intera fatta anche di teatro. Per quanto effimera, la sua presenza sulla scena ha lasciato tracce che testimoniano una complessità artistica che non ha molti precedenti. Magnani passa con disinvoltura dalla prosa alla rivista (e viceversa). È attrice di tradizione popolare accanto a Totò ma partecipa negli stessi anni all’affermazione della regia teatrale accanto a personalità come Anton Giulio Bragaglia, Vito Pandolfi, Orazio Costa. Eppure, precisa Laura Mariani, nelle storie del teatro lei non c’è. Ecco perché ripartire dagli archivi e da quel che resta del suo teatro è il solo modo per restituire un’unità espressiva alla recitazione di Magnani che, sebbene sia da inquadrare nel solco di quella volontà autoriale già presente nella tradizione attorica italiana dalla metà dell’Ottocento, è sicuramente unica e nuova.
Riferimenti bibliografici
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