Il gusto delle cose è l’ultimo film del regista e sceneggiatore vietnamita naturalizzato francese Trần Anh Hùng, premiato lo scorso anno al Festival di Cannes. La vicenda, ambientata alla fine dell’Ottocento nella villa francese del gastronomo Dodin-Bouffant (Benoît Magimel), ha inizio all’alba. Il sole sorge mentre Eugénie (Juliette Binoche), cuoca e amante dell’uomo, sta raccogliendo i frutti maturi dell’orto. Introdotto già nei primi minuti del film, il bisogno primario che anima il racconto è manipolato per diventare estetica, piacere e gusto, ed essere restituito allo spettatore tramite un fitto e intimo reticolo di impressioni. Il film quindi in qualche modo sembra proporre una riflessione singolare sulla relazione tra cibo e arte cinematografica: «Cibo nell’arte, arte nel cibo, cibo come arte» (Perullo 2014, p. 9).
Eugénie è a capo della cucina, ambiente la cui vivacità viene sottolineata dal sistema dinamico della ripresa, costantemente orientato alla descrizione di procedure e dettagli. Il gioco operato dalla macchina da presa in costante movimento cerca di seguire ogni passaggio, dalla scelta degli ingredienti alla sistemazione di questi nelle pentole e nei tegami, fino alle fasi ultime di cottura. La frenesia dei movimenti di macchina contrasta abilmente con la serenità dell’atmosfera creata dai personaggi, intenti a collaborare come pezzi di un perfetto ingranaggio per la riuscita del banchetto da servire agli ospiti, e amici di Dodin, attesi per il pranzo.
Saranno proprio questi ultimi a fornire allo spettatore i cardini di lettura dell’opera. “Una graziosa bambina è venuta al mondo oggi […] dopo i grandi sforzi per nascere, la neonata si è gettata sul seno della madre per il suo primo pasto”, dicono in uno scambio di battute intorno al tavolo. Evidente simbolo delle necessità animali dell’essere umano che Perullo definirebbe «protoestetiche» dell’arte culinaria, in quanto «l’atto di nutrirsi è un universale della vita sensibile, già nel liquido amniotico» e conferirebbe col tempo la «conoscenza del mondo esterno» (ivi, p. 15). Successivamente i commensali rifletteranno sul fatto che, se è Dio ad aver creato l’acqua, è però merito dell’uomo l’aver dato origine al vino, indicando come le necessità possano essere manipolate per trasformarsi in relazioni estetiche.
In accordo con la struttura del “food film”, Il gusto delle cose mette in relazione arte cinematografica e arte culinaria, portando l’attenzione sul cucinare come atto relazionale, assorbito in un flusso di sentimenti ed emozioni, capace inoltre di nutrire una sfera più intima, erotica: «Filmare una cucina è rimettere in scena una fabbrica, fabbrica dei sensi, nella cornice di quell’altra fabbrica dei sensi chiamata ancora cinema» (Marabello 2023). Elemento focale del film è la storicità della «percezione sensibile» (Benjamin) del XIX secolo, dove sensazioni, impressioni, vengono elaborate portando lo spettatore su una dimensione altra: quella del gusto in cui si trasfigura la passione primordiale della fame, dell’essenza stessa della vita.
La piacevolezza dei piatti fumanti, la vivace sinfonia di rumori delle tavolate, e i tempi lunghi delle silenziose scene dei pasti sono tutti elementi che rendono Il gusto delle cose un film sensoriale, al quale contribuisce la fotografia di Jonathan Ricquebourg nella restituzione delle vibrazioni emozionali dei personaggi impegnati nell’esperienza del cibo come esperienza estetica. Nel restituire il senso del gusto, il film può però contare solo sull’immagine. La scelta di Trần Anh Hùng consiste allora nel cercare un intercessore nella storia delle immagini, capace di riprodurre l’ambiente dei sensi. Questo intercessore è la pittura dell’Ottocento. La scelta è senz’altro funzionale a permettere allo spettatore di entrare nel vivo delle proprie sensazioni attingendo alla memoria delle immagini. Da qui si genera la traduzione intersemiotica del repertorio di artisti quali Manet, Monet, Renoir e Van Gogh, tutti esempi del propagarsi di un gusto estetico tipico della seconda metà dell’Ottocento.
Se con Somaini possiamo dire che «il modo secondo cui si organizza la percezione umana, il Medium in cui essa ha luogo, non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico», risultano allora particolarmente interessanti due momenti chiave nella composizione pittorica del film. Il primo vede nuovamente riunirsi il simposio gastronomico formato da Dodin e i gentiluomini che compongono il suo seguito: essi, nell’assaporare un nuovo pasto, si coprono i volti gettandoci cronologicamente avanti nel tempo delle avanguardie pittoriche e restituendoci il surrealismo de Gli amanti di Magritte. La ricerca dell’innovazione, il guardare oltre il possibile conosciuto risultano in questa fase dell’opera la spinta emotiva che muove il racconto.
Sulla scia di tale tendenza anacronistica, una seconda inquadratura cardine ci riporta indietro nel tempo. Eugénie muore, esaurendo la vitalità di Dodin e privandolo della sua musa ispiratrice, le luci e la composizione ci riportano alle tecniche caravaggesche della fine del ‘500, nello specifico a La vocazione di San Matteo, fornendoci però una nuova speranza; la predestinazione di Dodin è simboleggiata dalla luce che lo sfiora entrando dalla finestra alla sua sinistra, presagio che a breve una nuova fonte di ispirazione potrebbe arrivare. La speranza è individuata nella figura della piccola Pauline, simbolo di una nuova generazione da plasmare e istruire che potrà presto portare avanti il moto innovativo tanto caro a Dodin.
Ecco che la manipolazione del «senso naturale» trova compimento in una restituzione storica dell’impianto luministico e compositivo del passato che anacronisticamente chiama in causa l’esperienza dello spettatore. Le sequenze culinarie assumono una fitta stratificazione di segni, sensi e impressioni che si fanno portatori dell’andamento stesso della narrazione, ponendo al centro del film i simboli che caratterizzano un’epoca ma capaci di assumere anche valore universale.
Riferimenti bibliografici:
C. Marabello, L’architettura dei gesti e dei piaceri, in “Fata Morgana Web”, 2023.
N. Perullo, a cura di, Cibo, estetica e arte. Convergenze tra filosofia, semiotica e storia, Edizioni ETS, Pisa 2014.
A. Somaini, «L’oggetto attualmente più importante dell’estetica». Benjamin, il cinema e il «Medium della percezione», in “Fata Morgana”, 20, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2013.
Il gusto delle cose. Regia: Trần Anh Hùng; sceneggiatura: Trần Anh Hùng; fotografia: Jonathan Ricquebourg; montaggio: Mario Battistel; interpreti: Juliette Binoche, Benoît Magimel, Emmanuel Salinger, Patrick d’Assumçao, Galatéa Bellugi, Bonnie Chagneau-Ravoire; produzione: Curiosa Films, Gaumont, France 2 Cinéma; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia; durata: 134’; anno: 2023.