Filmare i sensi, e farne esito di gesti, traccia di verbi e azioni, raccontando e filmando i racconti dei piaceri del gusto. Filmare il senso, scrutarlo e farne immagine nella forma di un film, metterlo in luce nelle pratiche e nei luoghi dove si cela o si manifesta, in ciò che rende il senso di azione esplicito, rivelandolo nell’atto di filmare, nella misura del montaggio, nella possibilità che il senso divenga tale alla luce del racconto, radicandosi come narrazione. Menus Plaisirs – Les Troisgros, ultimo film di Frederick Wiseman, osserva e partecipa la vita di una famiglia di ristoratori, i Troisgros: la pratica quotidiana dell’altissima cucina, la dimensione di uno spazio, il ristorante, che si fa luogo nell’ordine dei gesti e del lavoro, nelle pratiche e nelle routine, come nelle forme dell’accoglienza e della parola, nella voce di protagonisti e artefici, ospiti e testimoni.
Agenti del gusto, commensali, cuochi e camerieri ospiti e produttori di materie prime divengono attori del convivio: compresi e ripresi nello spazio delle inquadrature si fanno coro o protagonisti, recitano se stessi nel dettaglio dei gesti del lavoro di preparazione come nella cura del racconto di presentazione dei menù, mentre i convitati recitano sé stessi alla tavola come ospiti di un rito laico e costoso, verso l’impressione o la possibilità dell’esperienza del cibo e del gusto. Dal La sortie des usines dei fratelli Lumière all’entrè dans la cuisine di Wiseman, il cinema si produce comunque come lente sul gesto e sul lavoro, lente sul tempo e del tempo. Una ghirlanda di eventi si compie dinanzi agli occhi di chi affronta i 240 minuti dell’architettura leggera ma potente di Wiseman: lo spazio dell’osservazione si manifesta nelle scene in cucina, nell’attenzione ossessiva dedicata alla preparazione dei piatti, alla cottura, all’impiattamento.
Quanto prende forma – la forma del gesto filmico e del montaggio – è una catena di montaggio di gesti, di odori e sapori descritti dal racconto dei cuochi, quanto culmina nel segno del piatto, nella cifra e nella composizione sulla sua superficie, del cibo, nel suo farsi immagine tridimensionale, nella sua relazione al nome che campeggia sui menù, evocazione di senso e sensi. La fabbrica lussuosa del cibo di un ristorante pluristellato che dal 1968 è luogo di culto dell’alta cucina è filmata come nel segno di un racconto di Balzac: il realismo del capitale assume la forma di un rognone, di una lumaca, di un set di piatti, di una cucina a vista dove la macchina dei gesti e l’automatica degli sguardi disegnano l’esito quotidiano del prodotto, mentre il lignaggio della famiglia Troisgros prende forma nel racconto di Michel, padre di tre figli e figlio e nipote di grandi chef, gli inventori della tradizione, embodiment puntuale della marca del familiare come produzione e invenzione marchio.
La fabbrica lussuosa si racconta così attraverso Wiseman, attraverso le filiere, i protagonisti paralleli, il coro dei produttori di prossimità, gli allevamenti e i piccoli terroir di vino biodinamico, i casari per i grandi formaggi, gli orti e le serre, i piccoli mercati locali dove si traccia la spesa ordinaria di materie prime. La fabbrica ristorante diventa il luogo della trasformazione attraverso il processo di ideazione ricerca di piatti e accostamenti del gusto.
La fabbrica è presentata come esito di un sistema di azioni e di forze concorrenti: il territorio, di cui si fa espressione e sublimazione, gli attori sociali ed economici della filiera del cibo, i lavoratori del ristorante, attori e narratori del cibo stesso, impegnati in sala nell’ekphrasis dell’olfatto e dei gusti, dei colori delle portate, della quasi tattilità delle consistenze di verdure o carni, di dessert o formaggi. Troisgros è un’officina dei sensi e del senso contemporaneo: allo spettacolo dei talent televisivi e dei reportage e documentari sui grandi chef, Wiseman giustappone lo sguardo attento dell’osservazione, l’emergenza della parola dei commensali, le azioni economiche e specializzate di un sommelier o di un pasticciere, del cuoco ai fuochi per le carni.
Lo chef diventa qui ideatore e narratore al cospetto della camera, agente e attore di scelte e giudizi, come nella confessione finale del film, nel suo farsi corpo sulla scena della sala, conversando con gli ospiti, raccontando dei propri gusti, del caso delle invenzioni. Nella durata del film lo spazio è un kammerspiel per le azioni e le risoluzioni, il luogo dove una ghirlanda di eventi si fa teoria semplice dell’osservazione partecipante, esito di camera e regia.
Gli interni della cucina, una cucina a vista, descritta dallo chef nella cifra e nella dizione dello spazio del caldo e di quello del freddo, eco spaziale del crudo e del cotto, diventano una geometria di lame atte al taglio di precisione, di fuochi da ravvivare o allentare, di impiattamenti veloci, di atti di composizione sulla superficie minima e definita del piatto. Wiseman filma il totale dello spazio per concentrarsi poi nella prossimità dell’inquadratura di dita, mani, forme del tatto esperte nell’esercizio del gesto produttivo del lavoro. Diagrammi, traiettorie di sguardi, compongono, a loro volta, la trama a vista di un racconto spaziale, gestuale, sonoro, di servizio: la sortie des commandes, la messa in ordine degli ordini verso la sala, l’atto della consegna materiale del piatto. Nella catena di montaggio dei sensi che il film esplicita, la linea dei gesti tuttavia culmina sempre nel racconto: il piatto si fa racconto all’atto della consegna, ad avvalorare una descrizione ulteriore, quella già presentata all’atto dell’ordinazione.
Come sempre nel suo cinema, e come nel cinema più recente, la parola stessa è azione, socialità agente e agita: cinema di atti linguistici, del linguaggio come performatività, della messa in scena dei codici, incarnati nei gesti come nel lessico di chef, come dei diversi attori del mondo della ristorazione. La parola, infatti, fa di questi spazi un luogo speciale, produce la possibile esperienza dell’astante, dell’ospite. Tuttavia mentre gli attivisti di City Hall o di In Jackson Height fanno di qualunque spazio un luogo politico, qui la parola è davvero situata, si fa fabbrica del senso e del consenso, letteralmente, invitando i commensali e gli spettatori all’invenzione singolare e collettiva del gusto, dei gusti, nominando, appellando, aggettivando.
Così negli esterni, nella campagna della Loira, nei campi coltivati, come nei pascoli, o nelle fattorie, Wiseman scruta il paesaggio come parola in qualche modo umana, come esito dell’azione e del lavoro. Paesaggio vissuto e descritto dalle azioni-parole dei coltivatori e degli allevatori: semine, rotazioni, storie di zolle e letame. La messa in scena dell’osservazione, delle relazioni di luoghi e abitanti, di parole e azioni, consegnano un’antropologia visiva densa: raccontare è davvero spiegare, montare è in fondo com-prendere, letteralmente, chi filmi. Le immagini e le inquadrature di Wiseman sono immagini thick, giammai thin: attraversano i generi cinematografici per esplorarli come cinema di osservazione. L’inizio del film infatti, come una ouverture, ci offre subito la parola al tavolo della famiglia degli chef, la conversazione sui menù, i futuri possibili di accostamenti e invenzioni.
Nello spazio della parola-lavoro la descrizione del futuro, il consolidamento di un programma, tracciano subito l’idea del film come analisi in situ di pratiche e idee, di azioni e reazioni, commedia familiare. La spesa al mercato si mostra come forma commedia – comédie molto humaine – di relazioni affettuose e consuete tra venditori e acquirenti, bozzetto denso, allegro, mentre nelle scene successive delle cene e dei pranzi, la commedia diverrà borghese, senza mai essere cinica, assumerà la forma della chiacchiera su vini costosissimi e rari, o la ritualità di cene di anniversari di matrimoni di famiglie ordinarie. Così la partie de campagne dei lavoratori del ristorante Troisgros, alla ricerca di erbe e fiori eduli, rimonta a Renoir – Jean e Auguste – come ai Lumière, re-montage di un tempo attivo, immagine-tempo come cristallo di osservazione e montaggio, antropologia della durata nella potenza visibile del gesto e nella cornice della parola come potenza di suono e senso.
La classica distinzione antropologica tra emico ed etico torna qui utile – uno sguardo che non giudica – appunto emico – produce davvero uno spazio etico di relazione. Wiseman ci rimanda al guardare, alla necessità di guardare, al lavoro dello sguardo come lavoro tout court come già Godard in Passion nella scena in cui la Schygulla era invitata dal regista a guardarsi nell’atto di recitare, nell’esser un volto facendosi tale nel lavoro dell’attrice. Filmare uno chef è in fondo semplicemente filmare il lavoro come scena del sé, filmare una cucina è rimettere in scena una fabbrica, fabbrica dei sensi, nella cornice di quell’altra fabbrica dei sensi chiamata ancora cinema.
Menus Plaisirs – Les Troisgros. Regia: Frederick Wiseman; fotografia: James Bishop; montaggio: Frederick Wiseman; suono: Jean Paul Mugel; produzione: 3 Star, Zipporah Films; origine: Francia, USA; durata: 240′; anno: 2023.