Di che cosa gode Marco? Marco è un giovane analizzante il cui caso paradigmatico viene presentato e discusso dallo psicoanalista Franco Lolli in Vivere la pulsione. Saggio sulla soddisfazione in psicoanalisi (Orthotes, 2022). La storia di Marco è esemplare perché sono tantissimi i Marco del nostro tempo, persone che trovano la “loro” (è proprio questo il punto, chi è, o che cos’è, che gode?) soddisfazione in comportamenti compulsivi che il cosiddetto soggetto subisce e non controlla. Allo stesso tempo Marco sembra “attivamente” partecipare a questa condizione di asservimento. Come se il soggetto godesse di non essere veramente un soggetto, bensì un oggetto della pulsione. La vittima, cioè, gode della sua condizione di subordinazione. La questione che pone il godimento di Marco è quindi quella di chi, nella situazione della “vittima” – in cui il “carnefice” può essere un altro violento oppure, come nel suo caso, una pulsione che “gode” dell’indefinito procrastinarsi della soddisfazione – che in realtà non è del tutto insoddisfatto (Marco è comunque in analisi perché si rende conto della stranezza estraniante della sua vita) della condizione di essere oggetto, e non soggetto, della pulsione.
Marco, un architetto di trent’anni di grande talento, mi racconta cosa è accaduto il sabato precedente la seduta. Con un amico è andato a bere qualcosa in un bar, in attesa che si unissero a loro due gli altri amici per “fare serata”. Sono le 21.30: si sente un po’ giù, senza grande iniziativa, un po’ smorto, stanco della settimana appena trascorsa e della noia di un’intera giornata passata a guardare ossessivamente i social. Ad un certo punto, entrano nel bar due ragazze. Sente un accento inconfondibile: capisce che sono due ragazze dell’Est Europa. Immediatamente pensa che siano due entraîneuse di qualche club privé, di quelli che abitualmente frequenta. Si sente eccitato. Inizia a pensare a come fare per liberarsi dell’amico e andare nel night club in cui immagina che loro lavorino. Arrivano gli amici. Passano la serata in vari locali. Lui, però, ha un pensiero fisso. Sta escogitando il modo per andar via senza far capire che andrà in uno di quei posti che tutti i suoi amici ridicolizzano: nel frattempo beve. Beve molto, ma non si ubriaca. Alle 3 del mattino, viene accompagnato a casa. Lui fa finta di salire. Esce nuovamente dal portone di casa e decide di andare a giocare i venti euro che ha in tasca nella speranza di vincere e avere così il denaro necessario per offrire da bere alle ragazze del club e passare con loro momenti di intimità sessuale. Gioca i pochi euro che ha e li perde in un attimo. “Lo sapevo – mi dice – io gioco per perdere, mica per vincere. A me piace giocare, non vincere”. Torna a casa. Oramai sono le 4.30. accende il suo PC e inizia a chattare nel sito di incontri sessuali che frequenta da molti anni (Lolli 2022, p. 77).
Proviamo a immaginare – non ci vuole un grande sforzo in verità, dal momento che abbiamo sentito tante volte queste parole – come uno dei tanti psico-qualcosa che popolano numerosi i programmi televisivi commenterebbe il caso di Marco: una vita senza senso, degradata, in cui il sesso è fine a sé stesso, asociale, la vita di un uomo che non rispetta le donne, senza speranze e senza impegno. Il nostro psico-qualcosa, cioè, darebbe un giudizio morale appena travestito di una diagnosi psichiatrica; è probabile, infatti, che Marco verrebbe descritto come qualcuno in preda ad un cronico e infantile narcisismo. In aggiunta qualcuno potrebbe attribuire la responsabilità della condizione di Marco non alla sua psiche, bensì al capitalismo. Che cos’è infatti la pulsione di cui Marco è preda se non la compulsione consumista del capitalismo? In entrambi i casi quello che non viene colto è che è vero che Marco è una vittima, ma il fatto è che è una vittima che incredibilmente gode – anche se può trattarsi di un godimento che disconosce e di cui si vergogna – della condizione di vittima.
Ma come può succedere che si goda della condizione di vittima? Uno dei meriti del libro di Lolli è valorizzare un punto centrale della psicoanalisi, in particolare di quella lacaniana, un punto sempre rimosso se non esplicitamente osteggiato: lo psichismo umano è il risultato di un trauma originario, quello in cui l’infans viene assorbito da una comunità umana così dismettendo, senza averlo scelto, la condizione semplicemente animale. All’inizio non c’è né equilibrio né armonia, c’è piuttosto una scossa che catapulta un piccolo animale inerme nella specie simbolica: «La vita si fa sentire nel momento del distacco» (Lolli 2022, p. 67) dalla condizione originaria. Ma questo significa che il trauma non è solo “traumatico”, il trauma è anche occasione di godimento. È questo il punto che viene sempre rimosso: c’è un godimento che è traumatico, e che non ha nulla a che fare con il piacere che possiamo desiderare coscientemente. È questa, al fondo, la scoperta insopportabile della psicoanalisi: il godimento eccede il controllo del cosiddetto soggetto. Per questo il caso di Marco è sconcertante, perché smentisce l’usuale rappresentazione dello psichismo umano come armonico e fondamentalmente equilibrato. Quando Lacan parla di castrazione si riferisce proprio a questa originaria condizione traumatica. Ma questo stesso trauma è anche la fonte del godimento: «La castrazione, cioè, intesa come perdita di godimento ha come suo inevitabile corrispondente sul piano libidico l’effetto di vitalizzazione, di galvanizzazione e di fibrillazione del sistema» (Lolli 2022, p. 68). C’è il trauma della castrazione, ma è un trauma che si gode, un godimento di cui anche Marco, suo malgrado, vuole partecipare:
L’evento di separazione dell’oggetto, che sul piano immaginario scava un vuoto e sul piano simbolico inscrive un meno, sul piano reale produce un guadagno libidico, un più: il bemolle della perdita, per così dire, si sovrascrive al diesis del recupero di godimento. Stesso evento, ma effetti diversi e sovrapposti […] la castrazione con il più-di-godere, la divisione soggettiva con l’oggetto condensatore di godimento, la mancanza-a-essere con il plus-dejouir. Per esser più chiari: nei ripetuti distacchi dell’oggetto con i quali il vivente deve necessariamente fare i conti […], alla perdita di godimento che il distacco comporta si associa sempre un suo parziale recupero. Nel vuoto scavato dall’evento di perdita, infatti, il corpo registra una variazione libidica, ossia un’alterazione del livello di attivazione dell’organismo che si scrive come memoria inconscia (Lolli 2022, p. 69).
Il caso di Marco, in sostanza, ci ricorda che l’inconscio esiste, e che il cosiddetto soggetto non solo non lo controlla – quello dell’autocontrollo è davvero il fondamento del sistema economico, «sii l’imprenditore di te stesso» è il nuovo imperativo categorico – ma anzi trova un torbido godimento nella condizione di non controllare la propria vita. Al punto, come è proprio il caso di Marco, di mettere in crisi la propria stessa esistenza, perché se è vero che c’è del godimento nella vita di Marco, è altrettanto vero che questo godimento è auto-distruttivo. A questo punto si pone la questione della psicoanalisi: che posizione assumere rispetto alla pulsione? Giudizio, condanna, accettazione, trasformazione? Quale, fra questa, è la posizione della psicoanalisi? Sta dalla parte del godimento, sia pure reso compatibile con la vita di Marco, oppure sta dalla parte di un ordine sociale che si basa invece sul presupposto che tutto si calcola e nulla deve andare sprecato? Un ordine economico-sociale che non sa che farsene di questo godimento che non si può mettere al lavoro? Quello che non va mai dimenticato è che Marco, torniamo al suo caso, si sente vivo proprio quando non è in controllo di sé stesso. E questo è inaccettabile non solo per tanta psicoanalisi (e psicoterapia) contemporanea, ma proprio – e forse soprattutto – per il sistema economico capitalista:
Marco si sente vivo proprio quando l’eccitazione lo spossessa della sua padronanza. Passa dieci ore in preda ad uno stato di agitazione che lo aliena dalla vita relazionale, dalla possibilità di pensare ad altro, dal controllo dei suoi atti; e proprio in quella finestra temporale in cui si è, per così dire, assentato, sente che la sua vita acquista un senso, come se si fosse risvegliato da un sonno durato un’intera settimana, iniziato la domenica mattina e concluso il sabato sera al bar. Il fatto è che, in questo risveglio, egli sente di partecipare ad un gioco che non conduce, ad un gioco che si prende gioco di lui, in cui gioca in posizione di oggetto passivo del gioco stesso. […]. Marco ci insegna che la vita può acquisire una densità, uno spessore e una consistenza proprio nel momento in cui l’io è abolito. Questo, in sostanza, è il dato sconcertante della sua vicenda: ma anche, in realtà, la scoperta fondamentale della psicoanalisi. Il soggetto è dove non pensa […]. Nelle dieci ore di piena eccitazione, in Marco si è realizzato un vero e proprio cortocircuito: per un verso, dissolvenza soggettiva (mancanza di padronanza, dominio dell’affetto sul pensiero, cancellazione della dimensione temporale, spinta all’atto senza rappresentazione, fenomeni di corpo invasivi), per l’altro, il sentirsi, il sentire di sentire, questa strana forma di sentimento di sé che sembra possibile solo nella propria esposizione alla più totale passività (Lolli 2022, p. 81).
Marco, e tutti i Marco di questo mondo, non vuole rinunciare a questo godimento che lo rende vivo. Non vuole che la psicoanalisi lo adatti al sistema sociale. Marco non vuole diventare un soggetto “funzionale”. Marco non vuole smettere di provare l’inebriante sensazione di non essere Marco. Marco vuole continuare a godere di questo godimento in un modo che non gli renda la vita impossibile. Questa possibilità di fare qualcosa del godimento che si gode Lolli la chiama, usando una parola antica e piena di pericoli, “sublimazione”. Per Lolli la sublimazione non consiste nell’addomesticamento della pulsione, come spesso è stata intesa. Questa è la sublimazione che mortifica e che non ha niente di vitale. Al contrario, per Lolli, la sublimazione consiste nel «vivere la pulsione», che non significa «abbandonarsi al godimento sfrenato e dissipativo, come alcuni psicoanalisti hanno sostenuto […]. Vivere la pulsione è ciò che si rende possibile quando il velo della rimozione è sollevato e l’analizzante può guardare – senza precipitarci dentro – il vuoto che il velo copriva» (Lolli 2022, p. 224).
Se all’inizio c’è un trauma, questo trauma non è superabile, dal momento che quello che presuntuosamente pensa di sé d’essere un soggetto è inseparabile da questo stesso trauma; ma questo “vuoto” che è anche un pieno di godimento, può diventare oltre che un sintomo anche una risorsa. La sublimazione realizza in un modo non deprimente il celebre motto di Freud: «Wo Es war, Soll Ich Werden», formula che per Lacan significa che «Io devo divenire laddove ciò era […]. Il luogo dell’origine, il luogo dell’essere (Wo Es war) […] non va risanato: va conquistato. Ciò da cui si proviene (Es) è il punto di arrivo di un percorso a ritroso che punta a riguadagnare il momento in cui si è venuti alla luce, l’attimo della propria insorgenza. […] L’analisi […] deve portare l’analizzante in quel luogo psichico dal quale proviene» (Lolli 2022, p. 221). Vivere la pulsione, ossia partecipare alla festa – e non solo subirne la conseguenze – del godimento della pulsione.
Franco Lolli, Vivere la pulsione. Saggio sulla soddisfazione in psicoanalisi, Orthotes Editrice, Nocera Inferiore 2022.