Le parole della canzone Ritornerai di Bruno Lauzi accompagnano il ritorno di Ljubov’ Andreevna nella sua proprietà in Russia. È l’inizio del Giardino dei ciliegi (1903), «commedia in quattro atti» di Anton Čechov, messa in scena con felice inventiva da Leonardo Lidi (terza tappa del suo Progetto Čechov) al Teatro Vascello di Roma.

Ma se ne nel testo di Čechov l’attesa che la signora ritorni dopo molto tempo da Parigi avviene all’albeggiare e nel «fiorire degli alberi di ciliegio», nello spettacolo luci al neon si abbassano dall’alto su una scena dominata dal nero, con disseminate a terra sedie bianche di plastica, e attori vestiti in abiti contemporanei ed eterogenei, di colori diversi, che denotano povertà di gusto ai limiti del kitsch (dai leggings fucsia alla pelliccia giallina, dai pantaloncini corti sportivi ai pigiami di pelouche).

In gioco, c’è la improrogabile e dolorosa messa all’asta del giardino dei ciliegi, necessaria per pagare i debiti dell’oramai impoverita signora Ljubov’ Andreevna, segnata da profondi dolori, la morte del marito, quella di un figlio piccolo annegato, un nuovo fidanzato che a Parigi le ha prosciugato le ultime risorse.

Ma perché Čechov la chiama commedia (dato che non ha happy end)? E perché proprio un giardino? Dalla risposta alla seconda domanda ne discende anche la prima.

Il mondo naturale, quando investito dal desiderio, prende la forma archetipica del “giardino”, dove la mano dell’uomo coltiva e si armonizza con l’ordine e i ritmi della natura e delle stagioni. Nell’opera di Čechov siamo a maggio, quando i ciliegi fioriscono (se il mondo vegetale viene invece investito dalla paura abbiamo la “selva”, come in Dante).

L’accordo tra uomo e natura definisce uno stato edenico (il Giardino dell’Eden, appunto), immagine ideale dell’infanzia e dello stato di innocenza. Perdere il giardino per Ljubov’ Andreevna significa perdere l’immagine ideale della sua infanzia, del suo passato, veder franare le illusioni. Esperienza dolorosa, ma che costituisce la precondizione per accedere ad un piano di realtà. E questo è specifico della commedia, come sottolinea Frye in Anatomia della critica, quando ci dice che la commedia in quanto genere ci racconta il passaggio «dall’illusione alla realtà». E la realtà non è né questo né quello, ma il perenne cambiamento (1969, p. 225).

Proprio per questo, anche se Il giardino dei ciliegi non si chiude con nessun matrimonio, neanche quello tra il mercante Lopachin e Varja, cioè non si chiude con nessuna felice integrazione sociale, costituisce comunque una commedia, sia pur commedia ironica, dove l’ironia più profonda è quella del tempo, del tempo che passa, inarrestabile, che si può solo malinconicamente salutare, come fa Ljubov’ Andreevna nel finale: «O mio dolce, mio caro, mio bel giardino! Mia vita, mia giovinezza, mia felicità… addio… addio!» (Čechov 1962, p. 683).

Lidi opera un doppio gesto nei confronti del testo di Čechov: da un lato ne estende la risonanza metaforica inclusa in ogni immagine archetipica, in questo caso quella del giardino, allargandola al teatro, e non solo nei momenti in cui i personaggi si rivolgono agli spettatori (invitandoli perfino a cantare) o entrano in platea, ma soprattutto quando, nel finale, l’abbandono della casa da parte di tutti i personaggi, ad eccezione di Firs, coincide con lo smantellamento della scena stessa, e ci viene mostrato il retropalco nel quale i personaggi si aggirano come attori; dall’altro trasforma il sentimento ironico e crepuscolare del testo cechoviano nel farsesco, con punte di grottesco, come quando immagina tutti i personaggi in piscina con costumi e con teli da mare (con scritte pubblicitarie) a parlare tra di loro.

Il grottesco inscrive uno sguardo morale su ciò che viene rappresentato. Ed è questo sguardo che la regia di Lidi fa emergere, accentuando una lettura socio-culturale del testo, riportata al presente, dove le differenze di classe emergono nella forma dell’invisibilità degli ultimi (umili o contadini essi siano), ma anche attraverso chi questa invisibilità l’ha definitivamente abbandonata, e lo rivendica, passando da figlio di contadini a mercante arricchito. È Lopachin, sarà lui a comprare all’asta il giardino dei ciliegi, ma non con l’idea di preservarlo, ma con quella di abbatterlo per costruirci tanti villini, per sfruttare quella frenesia della villeggiatura che è sicuro esploderà.

Un Lopachin il cui unico coraggio sembra incarnarsi nel puro gesto di rivalsa dell’acquisto del giardino: «Quell’Ermolàj così spesso bastonato e che d’inverno camminava a piedi nudi, ha comperato oggi una proprietà che al mondo non ve n’è di più bella! Ha comperato quella proprietà dove mio padre e mio nonno sono stati schiavi» (ivi, p. 671).

Sarà il gesticolare continuo di Lopachin (che in scena Mario Pirrello restituisce con grande efficacia, pari a tutta la compagine attoriale) a cancellare il possibile nobile gesto, quello di lasciare che il giardino resti tale. Un gesticolare sgraziato e rivendicativo, che contrassegna una voglia di arricchimento grossolano costruendo villini. Glielo dice il perenne studente Trofimov: «E questo tirar su villini, questo far conto che col tempo i villeggianti si trasformeranno in piccoli proprietari; far conti del genere equivale, in certo qual modo, a gesticolare…» (ivi, p. 675).

La straordinaria grandezza dell’ultimo lavoro teatrale di Čechov sta nella sua portata mitica, che non si rivela tanto nella possibilità del testo di essere sempre di nuovo attualizzato, quanto nella capacità, anche metaforica, di portare a leggibilità il presente, e di poter essere dunque usato in questo senso alto e nobile. È quello che fa Lidi trasfigurando l’ironia malinconica ed esistenziale dell’opera di inizio Novecento nel grottesco eccentrico, sociale e morale dello spettacolo di oggi.

Riferimenti bibliografici
A. Čechov, Tutto il teatro, traduzione di Giacinta De Dominicis Jorio, Mursia, Milano 1962.

Il giardino dei ciliegi. Testo: Anton Čechov; traduzione: Fausto Malcovati; regia: Leonardo Lidi; scene e luci: Nicolas Bovey; costumi: Aurora Damanti; suono: Franco Visioli; interpreti: Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna; produzione: Teatro Stabile dell’Umbria, con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi; durata: 160′; anno: 2024.

* In copertina foto di Gianluca Pantaleo.

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