Nel gennaio del 1897, a due anni di distanza dalla pubblicazione degli Studi sull’isteria e poco prima di dare vita alla psicoanalisi per come la conosciamo, Freud recapita al suo amico di penna Wilhelm Fliess due lettere piuttosto bizzarre. Nella prima, costruisce un ponte tra possessione demoniaca e isteria, sostenendo che la “preistoria” di questa misteriosa condizione «era già nota ed era già stata pubblicata un centinaio di volte, diversi secoli fa». La teoria medievale della possessione, conclude Freud, sarebbe «identica alla nostra teoria del corpo estraneo e della dissociazione della coscienza» (Freud 1968, p. 135). Tra i corpi infestati da demoni e i sintomi delle pazienti isteriche non ci sarebbe una semplice analogia. Piuttosto, è dello stesso fenomeno che si tratta. In modo analogo, continua Freud, «le confessioni che venivano estorte mediante torture» agli indemoniati ricalcherebbero per molti aspetti i resoconti delle pazienti durante il trattamento psicologico. Lo psicoanalista è una sorta di inquisitore benevolo che, con pazienza e dedizione, porta a galla ciò che la coscienza comune giudica inammissibile e innominabile. Freud, a modo suo, si sente un cacciatore di streghe. La seconda lettera, redatta la settimana successiva, ci dimostra che il futuro padre della psicoanalisi aveva preso l’argomento talmente sul serio da confessare a Fliess di essersi procurato una copia del Malleus Maleficarum (il vangelo degli inquisitori), con l’intenzione di «studiarlo accuratamente» (ivi, p. 137). Il tono programmatico con cui si apre la lettera è sconvolgente.
«L’idea della stregoneria sta prendendo forma. Secondo me torna. I particolari si stanno affollando. Ho scoperto la spiegazione del “volo” delle streghe. Il loro manico di scopa è, a quanto pare, il grande pene. Le loro riunioni segrete, con danze ed altri trattenimenti, si possono vedere ogni giorno nelle strade dove giocano i bambini». E ancora: «Le storie del diavolo, il vocabolario delle ingiurie popolari, i canti e le abitudini dei bambini, tutto acquista un senso per me». (ivi, pp. 136-37)
Nell’arco di soli sette giorni, la stregoneria passa dall’essere un lontano parente dell’isteria a una vera e propria matrice di significato per spiegare le origini e le dinamiche dell’inconscio. Sabba, rituali, cerchi magici e balli epidemici non sarebbero altro che la trasposizione culturale di un fenomeno ben più ancestrale, che riguarda l’intromissione delle vicende sessuali nell’essere umano. I parallelismi tracciati da Freud si fanno ancora più sorprendenti se ci accorgiamo che persino la tesi cardine della nevrosi come negativa della perversione trae origine da queste righe: quel che il nevrotico-indemoniato reprime nella coscienza e rimette in atto nel corpo come conversione somatica si trova nelle perversioni in forma rovesciata, e cioè sotto forma di quei culti o rituali antichi ricorrenti nelle celebrazioni di divinità come “Moloch” e “Astarte” (ivi, p. 137).
Nei successivi lavori di Freud, queste sedimentazioni esoteriche della psicoanalisi vengono via via meno, lasciando il posto a un tipo di esposizione più metodica. L’isteria torna a essere inquadrata come un fenomeno strettamente clinico, una condizione patologica da affidare al giudizio medico. Il riferimento al corpo, in maniera analoga, lascia il posto al primato dinamico dei pensieri inconsci. A confermarlo, c’è un’ennesima lettera che Freud scrive a Fliess nel 1899, e cioè una volta messo il punto al testo fondativo della psicoanalisi tout court, L’interpretazione dei sogni: «Ti posso rivelare che lo schema dei sogni può avere un’applicazione universale e che la chiave dell’isteria è realmente inclusa nei sogni» (ivi, p. 202). Il fenomeno controverso della stregoneria viene messo da parte per fare largo alla scienza onirica, il materialismo storico recede di fronte alla formula passe-partout delle formazioni del sogno. Anche la psicoanalisi, a modo suo, vede la luce a partire da una rimozione originaria. Tra l’enigma dell’isteria (non a caso ribattezzata da alcuni “misteria”) e la psicoanalisi rimane questo intervallo nascosto, questa parentesi indecente a cui Freud aveva osato dar voce solo attraverso il mezzo confidenziale dell’epistolario. È un aspetto spesso sottovalutato dalla critica, e su cui mi sento di insistere, perché pone la storia – e non solo della psicoanalisi – davanti a un bivio. Per un verso, un verso banale oserei dire, la stregoneria era un’isteria avant la lettre, una condizione che è stata trattata in termini giuridici anziché medici. In questo caso, è l’isteria a fornirci la chiave di lettura della stregoneria. La possessione è una condizione non da perseguitare, bensì da curare.
Per un altro verso, ben più impegnativo, è la stregoneria a spiegare l’isteria. Quest’ultima non sarebbe una malattia, ma un’etichetta clinica per rinnovare lo stigma sociale e politico nei confronti della femminilità. L’isterica presenta sintomi misteriosi (vomito, paralisi degli arti, amenorrea, tic nervosi) che il detective Freud ricollega a propositi intollerabili, desideri impossibili che dovevano essere esorcizzati dal corpo delle pazienti: un amore proibito, il rifiuto del proprio ruolo di donna e di madre, uno stupro inconfessabile. L’isterica non disobbedisce perché malata, semmai, è malata perché disobbedisce. Nell’uno come nell’altro caso, è di donne segregate che si tratta, di donne che dovevano farsi carico delle paure, dei timori e delle ingiustizie della propria epoca. Le due lettere a Fliess, che Freud si auspicava venissero bruciate assieme al resto della corrispondenza, rappresentano dunque un momento di inaudita consapevolezza nei confronti della condizione femminile.
Una consapevolezza che doveva essere ripudiata assieme al corpo, ai suoi fluidi e all’ipotesi di un modo alternativo di pensare la femminilità. Da questo punto di vista, la stregoneria rimane oggetto della nostra amnesia collettiva, un passato non elaborato che occorreva lasciarsi alle spalle. Qualcosa che transitava indistintamente tra la superstizione e il sovrannaturale, una macchia mai più integrata nella storia e nella coscienza del pensiero occidentale. Questo impegnativo capitolo è stato recentemente riaperto da Il famiglio della strega, un convincente saggio di Francesca Matteoni che può essere letto a tutti gli effetti come una decriptazione del significato storico e antropologico assunto dalla stregoneria durante l’età moderna. Del resto, proprio come l’isteria si è affacciata sull’orlo della crisi dei valori vittoriani, la strega è stata il perfetto «capro espiatorio» per superare un momento altrettanto difficile: la compromissione sociale ed economica prodotta dallo «scisma» tra «protestanti e cattolici» (Matteoni 2024, p. 12).
Come se la donna, tra un sommovimento e l’altro, dovesse essere la prima a tornare al proprio posto. Oppure essere stigmatizzata. La cosa «più vera di una strega», nota Matteoni, era «il suo corpo», da cui nascevano ogni sorta di stereotipi e di orrori (ivi, p. 15). E di questo corpo, la parte privilegiata è il sangue, una sostanza ambigua, al cui interno il pensiero teologico e popolare moderno ha scrutato vita e morte, salvezza e dannazione, continenza e violenza. Il sangue è il limen che separa e al tempo stesso congiunge mondi siderali. Ed è proprio questa sua capacità di mettere in comunicazione ciò che dovrebbe rimanere separato a fare di esso l’epitome delle nostre peggiori paure. Sin dall’antichità, il collegamento tra sangue e corpo femminile ha gettato le fondamenta del pensiero misogino e sessista: alcuni corpi, «specificatamente femminili», tendono più di altri a «trasgredire», a «mostrare i limiti (e il potenziale) della materia». Corpi difettosi che «hanno bisogno di espellere sangue», corpi che «mutano più vistosamente dei corpi maschili» (ivi, p. 16). Non per nulla, il sangue gioca ancora oggi un ruolo chiave sia nelle teorie di genere (si pensi al significato fisiologico, antropologico e politico assunto dal flusso mestruale nel corso dei secoli) sia nell’ambito più solenne dell’ontologia, dove figura come «segnale concreto dell’instabilità della natura animale e umana» (ivi, p. 25), come il simbolo della vita e della sua vulnerabilità.
Come ci ricorda Matteoni, tuttavia, non tutto il sangue è deiezione. Al sangue corrotto, impuro, al sangue marcio della strega, la modernità contrapponeva il sangue sacro, il sangue che santifica e lava i peccati. Il sangue maschile del Figlio di Dio, il sangue dell’eucarestia, dell’uomo crocifisso per redimere l’umanità. Sangue lava sangue, potremmo dire. Perché se il sangue è il sintomo del corpo vivo e permeabile, così come dell’ordine sociale che si sfibra, del venir meno di una tenuta protettiva che dà luogo a contaminazioni spiacevoli, allora il sangue cattivo deve essere lavato dal sangue buono. Il sangue della strega deve essere purificato dal sangue sacro dell’uomo. Né superstizione né curiosità sovrannaturale, la stregoneria ha rappresentato l’ennesimo punto di “confluenza” di “guerre civili”, “sconvolgimenti religiosi e sociali”, nonché un crimine inesistente che, nell’arco di due secoli, ha mietuto oltre sessantamila vittime (ivi, pp. 17-18). Prestare ascolto alle streghe, alle loro confessioni e ai resoconti di chi le ha processate ci tiene con entrambi i piedi nel reale. Ci apre gli occhi sulla solitudine, la povertà, i dolori e l’emarginazione di chi si è fatto carico delle angosce del proprio tempo. Nell’immaginario collettivo, la figura della strega risponde a un identikit preciso. È una donna, spesso anziana, dotata di deformità fisiche più o meno evidenti e talvolta accompagnata da un animaletto, lo spirito famigliare o famiglio. Magari un gatto nero, oggi incubo dei guidatori superstiziosi, oppure un rospo, specie vile che si diceva nascere dalla «putrefazione della materia» o dalle «acque stagnanti» (ivi, p. 128).
E cosa veicola, in particolare, il patto tra la strega e il famiglio? Il sangue, ovviamente. Ancora una volta, assistiamo a un duplice rovesciamento. Da una parte, il vincolo sessuale tra strega e demonio simboleggia l’inversione dei sacramenti cristiani, una religione rovesciata, proprio come la croce satanica. Dall’altra, il legame tra strega e famiglio ribalta il «ruolo privato e sociale di madre» (ivi, p. 32). Una madre «distorta», un’«antimadre» (ivi, p. 85) le cui cure non erano volte alla generazione di nuova vita (alla produzione dell’erede), quanto alla propagazione del “disordine”, alla negazione del principale compito assegnato alla femminilità: dare un figlio all’uomo. È una distorsione che si esprime nei presunti segni che i famigli lasciavano sul corpo delle donne, una degenerazione dell’accudimento in cui il latte è sostituito dal sangue, mentre il fluire della vita da un corpo all’altro si irrigidisce nelle croste e nelle ecchimosi del marchio demoniaco. «Nascosto sul corpo, poteva essere una qualsiasi escrescenza o piccola anomalia dell’epidermide, che tuttavia nella lettura accusatoria si mutava nel segno evidente dell’opera satanica, tesa a sovvertire il potere dei sacramenti cristiani» (ivi, p. 65).
Altro punto di forza del libro, e che risuona involontariamente con le difficoltà riscontrate dallo stesso Freud nell’estendere la condizione isterica alla sfera maschile, riguarda la connotazione sessuale della stregoneria. Non “sex-specific”, e cioè determinata dal sesso dell’accusato, bensì «sex-related» (ivi, p. 32). In altri termini, laddove la magia femminile era vista come una pratica nociva, un male assoluto e irrazionale, la sua controparte maschile conduceva sempre a qualche genere di beneficio. Lo stregone non praticava le arti occulte perché tarato, debole, facilmente soggiogabile, ma per puro interesse: forza, ricchezza, prestigio. Lo stesso dicasi della variante dello sciamano, «un predestinato che frequenta e conosce il mondo spirituale, che è in armonia col creato e, per questo, è esente dalle manifestazioni livorose solitamente attribuite alla strega» (ivi, p. 121). Il primo utilizza il corpo per rinnovare la comunione con la natura, la seconda è prostrata dalla corporeità, è devastata e ostracizzata dalle sue stesse malformazioni.
Quello di Francesca Matteoni è un saggio serio. Perché fa il punto su una triste stagione dell’umanità, su un vero e proprio genocidio condotto nel nome del sangue e della discriminazione. Ma, soprattutto, perché ci apre gli occhi su un tipo di amnesia – tipicamente umana – che sembra sopravvivere a ogni epoca e a ogni parentesi culturale possibile: la nostra tendenza a dimenticare che «la dimensione soprannaturale e intrusiva», la minaccia di turno «che spia dai bordi della comunità umana, non è che la forma della nostra paura di confrontarci con il dolore, la perdita e la diversità» (ivi, p. 166). Ciascun atto di forza, sia esso condotto in nome del bene o del progresso, nasconde e dissimula la nostra vigliaccheria di fondo. Il vero marchio che ci portiamo addosso, ieri come oggi, è la paura.
Riferimenti bibliografici
S. Freud, Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902, Boringhieri, Torino 1968.
Francesca Matteoni, Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’epoca moderna, effequ, Milano 2024.