Sbarcato a Palermo il 2 aprile del 1787 Goethe si reca in visita all’Orto Botanico, dove incantato dal vedere viventi e all’aria aperta, intrecciate, lussureggianti e intelligibili, in forme rinnovellate, le piante esotiche che aveva visto fino ad allora nelle serre, comincia a fantasticare di scoprire nella lussureggiante varietà quella “Urpflanze”, quella pianta originaria, che lo conduce allo studio della incessante metamorfosi delle piante, grande metafora e utopia concreta del vivente, del suo flusso misterioso. Questa idea di originarietà forse irraggiungibile, di paradigma vivente che possa fuoriuscire dalle epistemologie razionaliste e istradare la mente e il corpo nel campo aperto dove reale e immaginario si compenetrano, avrà un grande futuro: il “poetare scientifico” di Bachelard, la deterritorializzazione di Deleuze e Guattari; e trova oggi una attualità pregnante e planetaria in una antropologia filosofica come di nuovo storytelling, in una morfologia di un pensiero dell’animalità (da Agamben a Cimatti), nelle forme di una rinata Naturphilosophie, di una metafisica della mescolanza, delle atmosfere e del sensibile (come negli studi recenti di Emanuele Coccia o di Bohme) e nel fiorire di studi, pratiche e racconti dell’idea di un Giardino Planetario (idea del filosofo-paesaggista Gilles Clément).
Non poteva trovarsi genius loci migliore che il labirinto incantato e a cielo aperto, la divina foresta anacronica, il sovrapporsi e l’intersecarsi di tracce secolari e di volute barocche, di pieghe suggestive, di circonvoluzioni che si schiudono in una città incantata come Palermo, per la 12° edizione della Biennale Nomade Manifesta 12, partita a giugno e conclusasi il 4 novembre e appunto dedicata a Il giardino planetario. Coltivare le coesistenze. Nei quattro giorni del finissage si è rilanciata la “forma segreta” di questa Biennale diffusa, che ha fluttuato come le onde di un fiume per cinque mesi lungo tutto il territorio palermitano: nei giardini, nei palazzi, nei bagli, nei cortili, negli oratori, nelle chiese, nelle “stanze dello scirocco”, nelle macerie vive delle periferie, nello straordinario, goethiano, Orto Botanico di Villa Giulia, nelle chiese a cielo aperto come Santa Maria dello Spasimo, nello spazio scenico elisabettiano a pianta lignea centrale del Teatro Garibaldi, sede operativa della manifestazione.
Quella forma segreta è quella della costellazione. Si sono susseguiti nella “halloween” palermitana dei quattro giorni conclusivi, in cui trascorrevano processioni di santi bambini e dove (come a Città del Messico) i morticini portavano in dono piccoli teschi di zucchero, quelle configurazioni Interspecies del finissage: storytelling multispecie, performances di studenti svizzeri guidati dall’artista Uriel Orlow; film (di Fabrizio Terranova) sull’ipotesi di Earthy Survival e di un fertile caos delle specie e degli organismi intermittenti tra uomo/macchina/animale della cyberfilosofa un poco sciamana Donna Haraway, passeggiate tra Villa Giulia e foce dell’Oreto con un artista-botanico (Leone Contini) per lanciare in mare grandi zucche secche trasformate fiabescamente in vascelli per trasportare misture migranti; e poi la de-costruzione di un giardino che diviene sotto gli occhi e le mani di tutti in un’area dismessa dello Zen, Becoming Garden, ad opera del collettivo Coloco e di Gilles Clément; e ancora “passeggiate filosofiche” guidate da Emanuele Coccia in collaborazione con l’Istituto Francese, sotto il titolo Piante e migrazioni, dalla radice di Palazzo Butera (il palazzo fatato e alchemico che ospitò Goethe nel suo viaggio e che il collezionista Massimo Valsecchi ha restituito alla città nella sua splendida eleganza per farne un centro d’arte e di cultura) fino all’enorme, leggendario ficus di Piazza Marina.
In un continuum che restituisce il nomadismo di attenzione e di pratica tra pubblico e artista, quello che scorre è una idea di migrazione delle forme, di interstizi rizomatici percorsi da gesti, proiezioni, installazioni, azioni, progetti di giardini mobili e in divenire, embricazioni tra singolarità e collettività, con 50 artisti e collettivi coinvolti in 20 luoghi misteriosi, bellissimi, inediti, come usciti da un “sogno della specie” antidiluviano, e in più, nella miriade di eventi collaterali e nelle 5 residenze d’artista, 5 istituzioni di alta formazione, 5 presenze di gallerie internazionali.
Si tratta di un sincretismo che risiede e si sprigiona nell’anima di Palermo e si riflette senza soluzione di continuità nell’itinerario “a raggi” concentrici degli interventi artistici. Le mobilità e i flussi migratori, l’interculturalità e il polimorfismo si specchiano nel tessuto polittico della città, nel suo Atlas (Palermo Atlas è il titolo del grande catalogo pubblicato da Humboldt Books, atlante “mnemosinico” anche nel senso warburghiano delle survivances iconiche).
Tre le direttrici che si intrecciano lungo Manifesta 12: Garden of Flows, esplorazioni della “vita delle piante” e delle relazioni del sensibile con il bene comune globale e le risorse planetarie; Out of Control Room che rende tattile e materico il flusso invisibile e digitale; City on Stage, barocca sovrapposizione e stratificazione di stili e nature che rispecchia e comprende la natura profonda, tra ancestrale e contemporaneo, di Palermo.
È appunto la coesistenza ciò che emerge nel percorrere e scovare e introdursi nelle piegature di una bellezza e di una vitalità sconcertante e affascinante. Allora l’attitudine del visitatore è quella di abitare e coesistere, di interporre e lasciar scorrere la rete di relazioni e il movimento che erompe, in un divenire-giardino che può stare accanto al divenire-animale, al divenire-intenso, al divenire-impercettibile di Deleuze e Guattari. Una attitudine simile a quell’arte romanzesca dell’incontro e dello scambio di sguardi che il cinema ha nel Novecento introdotto nel tessuto esperienziale e percettivo del contemporaneo.
In questo senso, esemplare è l’azione-installazione protrattasi lungo la durata di Manifesta 12 ad opera del collettivo di videoasti Masbedo, sotto il titolo di Videomobile, in cui un vecchio furgone anni ’70 si trasforma in un “carro video” in giro per Palermo a percorrere e far rivivere i luoghi e le tracce del cinema del passato, nella memoria viva di testimoni e di spazi, nella risonanza e nella reviviscenza di mondi-immagine appartenenti alla stessa stregua alla città e ai paesaggi, e a cineasti come Visconti, Antonioni, De Seta, Mingozzi, Baffico, Rosi, Pasolini, Letizia Battaglia, Mimmo Cuticchio. Così come nel Film-Programme che allineava Ciprì e Maresco, Roberta Torre, Wenders, Garrone, Andò, Spike Jonze, Emma Dante, Miyazaki, Rossellini, Glawogger, Imhoof, Herzog, Giovanni Massa, Philippe Lloret, James Cameron. Di quest’ultimo si è proiettato Avatar. E i filamenti luminosi, gli alberi viventi, le iridescenze sensuali, i corpi elastici e animali, le silfiche membrane, gli occhi di luce, di quel film si sono rispecchiati in una Palermo che pareva far rivivere, qui e ora, il pianeta Pandora. Mentre risuonano nella mente e attraversano i nostri sensi quei versi della seconda elegia di Rilke, Autunno:
Le foglie cadono da lontano, quasi/giardini remoti sfiorissero nei cieli;/con un gesto che nega cadono le foglie./Ed ogni notte pesante la terra/cade dagli astri nella solitudine./Tutti cadiamo. Cade questa mano,/e ogni altra mano che tu vedi./Ma tutte queste cose che cadono, Qualcuno/con dolcezza infinita le tiene nella mano.
Riferimenti bibliografici
G. Clément, Il giardino in movimento, Quodlibet, Roma 2011.
E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna 2018.
J.W. Goethe, Urpflanze. La pianta originaria, a cura di M.Donà, Albo Versorio, Senago 2014.