In una delle sue ultime produzioni hollywoodiane, L’alibi era perfetto (1956), Fritz Lang mette a punto un dispositivo narrativo in grado di rendere l’incertezza del giudizio, l’ambivalenza della colpa e dell’innocenza, problematizzando così un tema che, sin dall’esperienza espressionista, non ha mai smesso di esplorare. Un giornalista e scrittore di successo sarà la cavia – insieme ad un editore, impegnato in battaglie contro la pena capitale – di un caso di condanna ingiusta imbastita ad arte, al fine di comprovare quanto il sistema giudiziario sia fallace di fronte a una condanna a morte. Il giornalista e l’editore approfittando dell’omicidio di una ballerina escogitano di costruire una falsa pista.

Quando, però, i due vorrebbero produrre la prova fotografica che scagionerebbe il presunto assassino, questa viene distrutta in un incidente e quindi l’indiziato è arrestato per via di una serie di prove che sembrano inchiodarlo alla sedia elettrica. Tuttavia alla vigilia della sua esecuzione, una volta accertata la sua innocenza, viene liberato. L’ultima sequenza del film rimette in gioco, però, i termini del problema e in un repentino ribaltamento dialettico tutti gli elementi si ricompongono in maniera tale da rivelare il protagonista come colpevole: è lui stesso a svelare per errore un dettaglio che lo condannerà a rientrare in cella. Quello che avevamo visto in azione era un colpevole con tutte le apparenze di un innocente, l’immagine di un falso assassino in grado di dissimulare il vero criminale.

Per Deleuze, il film di Lang è in grado di rendere convertibili contesti totalmente opponibili. È noto che l’espressionismo cinematografico in cui Lang si colloca al principio della sua carriera ha una forte tendenza a opporre luci e ombre, per restituire il contrasto morale tra bene e male, inteso in un rapporto di necessità reciproco, in una tensione in grado di generare l’orrore – il Nosferatu  (1922) di Murnau, la donna robot in Metropolis (1927) dello stesso Lang, o, ancora, Der Golem (1915) di Wegener.

Negli Stati Uniti Lang accentua la sua tendenza e il suo stile, in particolare nel suo incontro col genere più propriamente giudiziario: nel confronto diretto con tribunali, giudici, procuratori e giurie, sembra accentuarsi l’incertezza e l’ambiguità: il giudizio rimane il punto di vista maggiormente convincente. Per Lang, l’aula giudiziaria sembra caratterizzare il mondo della giustizia e del diritto, che, a dispetto del carattere di certezza a cui tale dimensione rinvia, spesso si materializza ed esemplifica in sanzioni e pene comminate.

La contesa che caratterizza il dibattito attorno alla questione di cosa sia diritto a partire dal secondo dopoguerra è oggetto dell’ultimo volume di Massimo La Torre Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi. Il paradigma giuridico positivista fino ad allora dominante, l’idea di poter espellere la giustificazione delle norme e basarsi sulla fredda logica dei codici e delle fonti positive – per cui i soggetti che svolgono una funzione pubblica, sovrani o operatori del diritto, sarebbero per lo più i destinatari delle norme giuridiche – si manifesta in tutta la sua drammatica inefficacia durante la crisi di Weimar in cui, pur difendendo la Repubblica contro l’avanzamento dell’autoritarismo, l’esaltazione della sovranità che, però, esclude la legittimazione dal basso, fa precipitare il sistema nel totalitarismo nazionalsocialista. E non è forse un caso se per Kracauer è proprio nel mostrum che sorge dal cinema espressionista degli anni di Weimar che emerge quella “manipolazione dello spirito” operata da Hitler.

All’indomani del secondo conflitto mondiale appare assolutamente necessario superare quel paradigma su cui si regge il positivismo giuridico, per ripensare la relazione essenziale tra diritto e giustizia che si rifletterà nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra con l’introduzione dei diritti fondamentali e i meccanismi di controllo di costituzionalità delle leggi che modificano il ruolo del legislatore.

È ad Herbert L.A. Hart che si deve la rielaborazione del paradigma classico del giuspositivismo. In particolare in ambito anglosassone le sue opere traghettano lo studio del diritto dall’ambito specifico delle professioni legali verso un dibattito teorico tra i più ricchi e partecipati di tutta la contemporaneità. Ad essere messa in discussione è innanzitutto la nozione di comando, ereditata dalla tradizione inglese degli Analytical Jurisprudance, che Hart considera una nozione incapace di spiegare in maniera esaustiva la stabilità e la continuità di certi sistemi giuridici; allo stesso tempo non è abile nel definire fino in fondo il fenomeno della normatività.

Per Hart, la normatività non ha nella sanzione un fatto necessario: l’obbligo che deriva dalla sanzione giuridica non deve, infatti, necessariamente dipendere da una situazione psicologica di timore. Hart, in ragione della prospettiva formale e strutturale con cui esamina il mondo del diritto, si colloca come un riformatore critico del realismo giuridico di Kelsen e, più in generale, del positivismo giuridico nella sua forma pura.

Una traiettoria teorica simile, in ambito italiano, è rappresentata dall’opera di Norberto Bobbio. Da una prima attenzione verso un certo giusnaturalismo, il giurista italiano apre all’analisi del linguaggio e alla sua logica come chiave per comprendere il fenomeno giuridico, per poi superare il criterio logico-deduttivo e tematizzare la nuova “età dei diritti” di cui lo Stato costituzionale democratico è espressione.

Se la dottrina hartiana rimette in discussione alcune categoria fondamentali del positivismo giuridico, è Ronald Dworkin a scompaginare la teoria giuspositivista. Per Dworkin, le norme sono convenzioni che rinviano a principi che possono tra loro non essere univoci, e che, pertanto, necessitano di una “narrativa convincente e coerente”. Norme e principi sono poi sempre articolati con la diversità dell’esperienza in cui si dispiegano, dando luogo a continue specifiche interpretazioni ed interrogativi. Le posizioni di Dworkin a favore di una fondazione della normatività del diritto, che superi le metateorie retoriche del giuspositivismo, rendono il giurista statunitense l’ostacolo principale con cui il positivismo giuridico si dovrà confrontare.

Un approfondimento in senso radicale della dottrina hartiana è proposto da MacCormick. Il giurista scozzese sviluppa una critica serrata all’imperativismo e alla nozione di sovranità, a favore del riconoscimento della pluralità e della diversità degli ordinamenti giuridici. In particolare, egli avverte la necessità, sulla spinta della costituenda Comunità Europea, di aprire al diritto internazionale che possa favorire la nascita di un ordinamento giuridico che superi la stessa forma-Stato. Egli si colloca così entro la tradizione della dottrina giuridica istituzionalista – le due versioni “classiche” di Hauriou e Romano e quella “illegittima” del periodo della konkretes Ordnungsdenken di Carl Schmitt – per la quale le norme sono frutto di fonti diverse, non classificate soltanto dall’ordine gerarchico.

Incrociando le sue piste teoriche con quelle di Weinberger, MacCormick elabora la comune teoria neoistituzionalista, negando decisamente che il diritto possa essere ridotto alla sanzione o, ancora oltre, alla coazione o coercizione. Il neoistituzionalismo concepisce il linguaggio non solo in funzione meramente descrittiva, ma in grado di produrre “stati di cose” non riducibili a fatti empirici, ma intesi come “fatti tipicamente istituzionali” che aprono al mondo del diritto un ventaglio di questioni morali e pratiche.

La varietà e la densità di queste riflessioni sul diritto ricostruite criticamente da La Torre – come gli enunciati normativi puri o morali di Carlos Nino, il neocostituzionalismo di Ferrajoli e Zagrebelsky, o, ancora, il postmodernismo giuridico di Koskenniemi e il legalismo come filosofia del diritto – creano un panorama teorico dal quale emerge l’esigenza di mettere in discussione i nodi irrisolti del positivismo giuridico, che ha inteso mascherarsi da scienza naturale per basarsi sulla fredda logica dei codici e delle fonti positive. Al contrario, le sottili indicazioni di La Torre ci consegnano l’impossibilità di separare il momento della teoria dei giuristi da quella dei filosofi e di affermare dunque la necessità che le norme siano giustificate dalle ragioni e dalla forza delle teorie.

Le sfide che offre la contemporaneità sprigionano enormi stravolgimenti dell’organizzazione sociale su cui fatalmente la teoria del diritto deve continuare a riflettere. Anche per dare risposte agli interrogativi vecchi e nuovi: come, da ultimo, il ruolo assunto dai big data – anche a fronte alla pandemia Covid 19 e alle ipotesi di ricorrere a sistemi di tracciabilità per contrastare la diffusione del virus – che sembrano ridisegnare i confini del nomos politico, proprio degli stati tradizionali, per aprire la riflessione giuridica a spazi inediti. Chissà allora che non sia opportuno, come suggerisce Mariano Croce nel saggio che chiude una recente riedizione de L’ordinamento giuridico, riprendere dalla dottrina di Romano il carattere processuale del diritto che permetterebbe agli attori sociali di aggregarsi ma al contempo ne garantisce la mutabilità di fronte alle sempre instabili esigenze materiali. Una necessità incombente se si vuole evitare che il mostrum riemerga.

Riferimenti bibliografici
M. Croce, La tecnica della composizione. Per una storia futura de L’ordinamento giuridico, in S. Romano, L’ordinamento giuridico, Quodlibet, Macerata 2018.
G. Deleuze, Immagine-movimento, Cinema 1, Ubulibri, Milano 2006.
S. Kracauer, Da Caligari a Hitler, Lindau, Torino 2007.

Massimo La Torre, Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi, Leo S. Olschki, Firenze 2020.

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