allied

Il mondo là fuori a lui non interessa. A Robert Zemeckis interessa il cinema. Ma gli interessa hitchcockianamente: niente tranches de vie, solo tranches de gâteau. Cinema come pasticceria. Come haute cuisine. Come allestimento di prelibatezze visive che offrano agli occhi quello che il mondo là fuori non è in grado di offrire. Per questo Zemeckis ha fatto dell’ibridazione il tratto distintivo della sua ricerca e della sua passione scopica: perché sa che è dal cortocircuito fra sapori diversi che nascono le esperienze visuali più emozionanti. Così, di volta in volta, ha generato ibridi attori in carne ed ossa e cartoni animati (Chi ha incastrato Roger Rabbit, 1988), fra immagini analogiche e immagini digitali (Polar Express, 2004), fra immagini di finzione e immagini d’archivio (Forrest Gump, 1994). Ma anche ibridi fra vertigine ed equilibrio (The Walk, 2015), fra oggettivo e soggettivo (Contact, 1997), fra attese e disattese (Cast Away, 2000). Qui, in Allied, l’ibridazione è fra il cinema e il suo fantasma. o i suoi fantasmi, al plurale. Un po’ come aveva già fatto in Le verità nascoste (2000), che tra film – tutti imprescindibili – di Zemeckis è quello che più si avvicina ad Allied; Le verità nascoste era un film sul passato che ritorna sotto forma di fantasma. Allied è un film sul cinema che ritrova i suoi fantasmi e danza con loro una ronde alla Max Ophüls. È cinema che si allea coi suoi fantasmi.

Zemeckis mette tutte le sue carte in tavola (sullo schermo) fin dalla sequenza d’apertura. Il protagonista entra in scena dall’alto, dal bordo superiore dell’inquadratura, e scende giù, prima con i piedi, poi col corpo, fino a rivelare di essere appeso a un paracadute che si sta calando sul nulla del Sahara marocchino. Incipit portentoso. Visivamente, ma anche semioticamente. E poi, soprattutto, semioticamente. Perché Brad Pitt, alias Max Vatan, tenente colonnello dello spionaggio britannico, prima scende in verticale dal cielo, poi cammina in orizzontale sulle dune di sabbia del deserto. Verticale, orizzontale: gli assi cartesiani del racconto sono tracciati con netta evidenza fin dalle prime due inquadrature. A dirci che Allied è un film che “va giù” e poi “va in piano”, che scende e scivola, che si abbassa e avanza. Nel racconto, ma anche nel senso. Perché Allied può essere visto e gustato lungo questi due assi. Su quello orizzontale, la progressione del racconto ci conduce in una spy story in stile vintage che mette in scena – con evidenti echi di Casablanca (1942) di Michael Curtiz o di Lawrence d’Arabia (1962) di David Lean – una storia d’amore e spionaggio, fra il Marocco e Londra, negli anni centrali della Seconda guerra mondiale. L’asse verticale – quello che ci porta giù, in profondità – ci invita però a una fruizione più spericolata, metacinematografica.

Allied non è solo un film su una love story impossibile fra due spie alleate ma di nazionalità diversa, quanto una raffinatissima operazione di riflessione metafilmica sui modi e sulle forme con cui è possibile, oggi, raccontare una storia in un film. Detto in altri termini. Allied è un film sul cinema, sulla sua storia, sui suoi trucchi e le sue menzogne. Come ha notato Giulio Sangiorgio su FilmTv: Allied: All-lied. Una bugia totale, un gigantesco delizioso inganno. Proviamo a capire meglio. Lei (Marion Cotillard) e lui (Brad Pitt) sono prima di tutto attori. Per essere spie (sull’asse orizzontale del racconto), devono prima di tutto saper recitare (sull’asse verticale). Devono fingere di essere quello che non sono. Devono simulare di essere marito e moglie (mentre non si sono mai visti prima), di amarsi appassionatamente (mentre il loro rapporto – almeno fino alla scena della tempesta di sabbia nel deserto – è assolutamente casto), di essere collaborazionisti del Terzo Reich.

C’è una scena – quella ambientata sul tetto della loro abitazione di Casablanca – che in questa chiave è rivelatrice: lei recita il copione della moglie devota e innamorata e fa recitare anche lui. Lo dirige: “Ora baciami”, gli dice. “E ora parla”. “Adesso sorridi!”. C’è sempre qualcuno che li può spiare, dai tetti di Casablanca, e il copione deve essere perfettamente interpretato. Zemeckis si diverte a disseminare la sceneggiatura di questi dettagli metalinguistici: il personaggio che lei ha disegnato per lui prevede che lui sia cattolico e lei gli mette al collo una catenina con una croce. Gli fa perfino da costumista. E quando lei fa una mossa spericolata ma efficace per sviare da entrambi eventuali sospetti, lui commenta: “Bien joué!». La didascalia traduce con «bella mossa!», ma in francese – come è noto – jouer significa recitare. E tutta la storia che scorre davanti ai nostri occhi ha a che fare con la sublime arte dell’attore. Quel che non sappiamo è che lei, forse, non sta recitando solo agli occhi dei nazisti, ma anche agli occhi di lui (e ai nostri). Forse non è quel che dice di essere. Forse il suo apparire come una mogliettina appassionata che nasconde, il suo essere una spia è un’ulteriore maschera che nasconde qualcos’altro. Come suggerisce il sottotitolo: c’è un’ombra nascosta che grava su di lei. Ed è proprio nello svelamento di quel tanto che lei forse nasconde che Zemeckis rivela tutta la sapienza hitchcockiana con cui ha costruito la sceneggiatura, immergendola – per dirla ancora alla Hitchcock – nell’ombra del dubbio.

Perché Allied è, tra le tante cose che è, anche un intenso, sentito e devoto omaggio a Hitchcock e alla sua tecnica di costruzione della suspense. Si pensi anche solo a quante volte viene annunciato che a una certa ora accadrà qualcosa (alle 20:35, durante la festa in ambasciata, ci sarà un’esplosione diversiva; alle 23:07 lui riceverà una telefonata, e così via). La sceneggiatura gioca sapientemente – come Hitchcock ha insegnato – a dilatare il tempo che intercorre fra l’annuncio che accadrà qualcosa e il momento in cui questo qualcosa realmente accade. È la tecnica basica di generazione della suspense, assieme a quella del cosiddetto “scarto cognitivo”: i personaggi sanno qualcosa che noi non sappiamo, e finché questo scarto non si colma, noi stiamo in tensione.

Come già in Le verità nascoste – dove pure un segreto gravava come un’ombra nel rapporto coniugale fra Harrison Ford e Michelle Pfeiffer – anche qui Robert Zemeckis dirige una sceneggiatura che gli consente di realizzare un film scendendo con il paracadute dello sguardo giù giù dentro la pancia del cinema, e quello che nasconde: maschere, ombre, miraggi, false verità. Con una sola regola indiscutibile, quella enunciata dal personaggio di Marion Cotillard: “Non mentire mai sulle emozioni”. Zemeckis la applica. Per questo il suo cinema funziona e – ogni volta – ci inganna per rivelarci qualche verità.

Sul cinema, certo. Ma forse, paradossalmente, anche sul mondo là fuori.

 

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