L’ultimo giapponese. Una figura quasi leggendaria, un modo di dire entrato nel linguaggio comune. L’ultimo giapponese, colui che non si arrende, che difende la sua postazione anche dopo che la guerra è finita, per anni, per decenni. È questa la storia che Werner Herzog racconta in Il crepuscolo del mondo, un libro scritto durante il periodo del lockdown, in cui il regista era impossibilitato a viaggiare, a portare avanti altri progetti. Un libro buttato giù di getto, dopo però che quella storia aveva abitato la sua mente per anni. È il suo primo “romanzo” (le virgolette sono d’obbligo, e andrà spiegato perché), ma non il suo primo libro. Herzog ha pubblicato infatti, nel corso del tempo una serie di testi, dalle sceneggiature di molti suoi film, a libri-diario, come Sentieri nel ghiaccio, che narra del viaggio a piedi da Monaco a Berlino compiuto dal regista nell’inverno del 1973 per andare a trovare (e a salvare, con la forza magica di questo gesto) la sua amica Lotte Eisner; o come La conquista dell’inutile, diario della lavorazione di uno dei film più estremi della sua carriera, Fitzcarraldo (1982).
Ciò che accomuna le scritture di questi testi è la qualità cinematografica e letteraria che li attraversa. Le sceneggiature non sono scritte con i criteri classici del genere, ma come romanzi descrittivi e impressionisti, in cui l’atmosfera, la dimensione emotiva o visionaria del film viene catturata da parole precise, che immediatamente diventano immagini nella mente del lettore. Anche i due testi diaristici lavorano in questo senso, ponendosi in un certo senso anch’essi come esercizi cinematografici, in cui la scrittura in prima persona è la modalità attraverso cui dettagli, situazioni, eventi piccoli e grandi vengono resi immagine in una prospettiva costantemente soggettiva. La scrittura di Herzog è fatta di brevi frasi, di dettagli visivi, di descrizioni minime ma efficaci. Un esercizio del vedere, dell’osservare, in cui non conta la ricostruzione del quadro d’insieme ma il montaggio frenetico e costante dei piccoli frammenti.
In questo, lo si riconoscerà, è presente il magistero dell’amico e anima affine Bruce Chatwin, la cui scrittura in soggettiva e il cui montaggio di frammenti ricorda lo stile herzoghiano. Ma nello scrittore inglese il frammento è spesso affidato a brevi frasi, a dialoghi spezzati, come se fossero colti per caso, passando lungo la strada. In Herzog le parole non dominano quanto i gesti, le sensazioni, le percezioni sensoriali che costellano la sua narrazione. Ne Il crepuscolo del mondo questa differenza è palpabile. Il testo non sviluppa una concatenazione di eventi, ma di percezioni, pensieri, ricordi. Come un cortocircuito della memoria, che sospende ogni storia possibile, la scrittura sembra fatta di istanti, ironicamente registrati nel tempo e nello spazio, ma di fatto indistinguibili quasi gli uni dagli altri. Si tratta allora di un lavoro dell’osservazione, che coglie e isola momenti significanti, inserendoli in una struttura – in un montaggio, dovremmo dire – che li lega gli uni agli altri.
È qui che risiede la forza di questo romanzo, che è anche un saggio filmico su carta, un racconto documentario scritto, un saggio teorico. Un’opera che si rivela una straordinaria riflessione sulla percezione, sulla soggettività come costruzione di una Weltanschauung, come elaborazione di una visione del mondo in cui ogni elemento è un segno interpretabile, prova inconfutabili delle convinzioni illusorie del protagonista. Soprattutto, è una particolare messa in forma della percezione del tempo, della temporalità come elemento mobile, fluido, non lineare. Strutturato per capitoli, ognuno dei quali reca l’anno e i luoghi in cui gli eventi descritti accadono, il libro narra alcuni frammenti dei quasi trent’anni che il tenente Hiroo Onoda ha passato nella giungla di un’isola delle Filippine, nella convinzione di dover continuare a difendere il territorio dagli attacchi nemici, in attesa del ritorno delle truppe giapponesi. Capitolo dopo capitolo il lettore scopre le tecniche utilizzate per la sopravvivenza, i rapporti tra i componenti del manipolo di uomini (dei quali rimarrà solo Onoda), e, soprattutto, le tracce disperse dei pensieri di Onoda, della sua irremovibile decisione di non credere che la guerra sia finita, di mantenersi fedele al principio di lealtà all’impero giapponese.
Non solo: ogni capitolo marca un indice temporale che non passa, che rimane immobile, che annulla il presente, rendendolo irraggiungibile ad ogni istante, in uno spazio, che, come la foresta vergine, non conosce il tempo: «Dov’era il presente? Ogni centimetro del suo piede in avanti era qualcosa che stava arrivando, ogni centimetro alle sue spalle era già il passato. E avanti così, sempre più piccoli, in millimetri, in impercettibili frazioni di millimetri» (Herzog 2021). Un paradosso zenoniano che di fatto blocca il tempo, e rende la storia di Onoda l’esperienza di una temporalità sospesa, che al tempo stesso espande e confonde la memoria e la percezione. Dove inizia ciò che è tangibile e reale e dove comincia ciò che è ricordo, si chiede ancora il protagonista.
La ferrea volontà di dare un senso alla sua esistenza spinge Onoda a leggere ogni movimento del mondo come conferma della guerra che continua e della necessità di nascondersi. Gli aerei che passano in cielo sono aerei nemici, i contadini filippini sono spie del nemico, i volantini che annunciano la fine della guerra un abile stratagemma propagandistico. Dove finisce l’illusione e dove inizia la realtà? Nulla è più reale del soldato fantasma (così venivano chiamati i soldati giapponesi che rifiutavano di arrendersi a guerra finita), ma la sua realtà è costruita, elaborata, perfettamente calibrata. Una sorta di bolla temporale in cui il pensiero e lo sguardo sono completamente immersi, senza la possibilità di emanciparsi, di liberarsi.
Onoda vede senza vedere, percepisce il mondo senza veramente intenderne i segni: il suo è un movimento cinematografico in fondo, ma di un cinema dell’illusione, della simulazione, dell’immobilità. Non è un caso che Il crepuscolo del mondo segua di poco un film come Family Romance, LLC (2020). Anche questo ambientato in Giappone, in un Giappone contemporaneo, dove una agenzia fornisce a chi lo richiede un sostituto per un caro venuto a mancare o il simulacro di una figura assente: un padre, una madre, una moglie, un marito. Il film sul potere dell’illusione si rifrange nelle pagine del romanzo di Onoda, rendendo ancora più radicale il suo effetto. La giungla dove si rifugia il tenente è in fondo indifferente e uguale a se stessa, impedisce allo sguardo di indagare il reale, si rifugia nella bolla della menzogna totale: «Il tempo, la giungla. La foresta vergine non conosce il tempo, come se entrambi, simili a fratelli divenuti estranei l’un l’altro, avessero ormai ben poco in comune, come se la loro comunicazione fosse ridotta, al massimo, a una reciproca forma di disprezzo» (ivi).
È un’idea di narrazione (e di cinema) che in fondo rappresenta ciò che più Herzog ha sempre rifuggito, nel continuo tentativo di costruire una forma che sia in grado di cogliere il reale, pur nella finzione più esasperata, pur nella consapevolezza di voler trasfigurare ogni immagine. Eppure, nelle righe del romanzo vibra una empatia tangibile per il tenente Onoda, per la sua ostinazione, per la sua ossessione, per la sua capacità di resistere per anni sospinto, solo da una cieca volontà. Herzog ama i suoi personaggi, con pochissime eccezioni; non importa quanto siano lontani dal suo modo di vedere il mondo. Ed è anche per questo che noi riusciamo a sentire la grandezza di uno sguardo occluso che, come quello di Onoda, trasforma la sua vita in una tragedia dell’assurdo.
Riferimenti bibliografici
W. Herzog, Sentieri nel ghiaccio, Guanda, Parma 2008.
Id., La conquista dell’inutile, Mondadori, Milano 2018.
Werner Herzog, Il crepuscolo del mondo, Feltrinelli, Milano 2021.