È del corpo comunitario che ci occuperemo. Il corpo comunitario come qualcosa d’altro rispetto al corpo istituzionale, cioè il corpo istituito dalla, e costruito per l’istituzione. In questo senso il «corpo istituzionale», come lo chiamava Basaglia, è il corpo del tutto ed esclusivamente al servizio della istituzione, sia questa una istituzione medica (in particolare psichiatrica nel caso di Basaglia), oppure educativa, religiosa, economica, che oggi è il tipo di istituzione più diffuso e pervasivo (si pensi all’Università al tempo dei crediti e della valutazione metrica del merito, che è sempre più una istituzione economica più di ricerca e di formazione). Nel caso di quello che possiamo chiamare il “corpo comunitario” si tratta invece di un corpo che non solo non viene assimilato e uniformato dalla istituzione, al contrario, è un corpo che liberamente partecipa della vita sociale, quindi un corpo non smette mai di essere una individualità autonoma e potenzialmente conflittuale. Un corpo a molte dimensioni, un corpo eccentrico, cioè un corpo che è capace di stare con gli altri senza aver bisogno di annullare la propria inesauribile eccentricità.
La posta in gioco, quindi, è il corpo. Questo significa che il corpo, quello che temerariamente chiamiamo il “nostro” corpo, non è qualcosa di scontato, qualcosa di originario, cioè qualcosa che c’è sempre stato. E non solo nel senso ovvio che il corpo cambia nel tempo, dalla nascita fino alla morte, piuttosto nel senso che il corpo diventa il corpo che è a seconda delle relazioni di potere che lo attraversano e lo costituiscono come quel determinato corpo. Un corpo, cioè, non è mai un corpo al di fuori delle relazioni di potere in cui è invischiato, e da cui non può sottrarsi. «Nelle relazioni umane», dice Foucault, «qualunque esse siano – che si tratti di comunicare verbalmente […] o di relazioni d’amore, istituzionali o economiche – il potere è sempre presente: mi riferisco alla relazione all’interno della quale uno vuole cercare di dirigere la condotta dell’altro» (Foucault 1998, p. 284). Il corpo umano, pertanto, è una costruzione, un intreccio di carne e potere, e quindi anche di violenza e resistenza.
In effetti, prosegue Foucault, «bisogna anche sottolineare che le relazioni di potere possono esistere soltanto nella misura in cui i soggetti sono liberi. Se uno dei due fosse completamente a disposizione dell’altro e diventasse una cosa sua, un oggetto su cui poter esercitare una violenza infinita e illimitata, non ci sarebbero relazioni di potere. Affinché si eserciti una relazione di potere bisogna dunque che dalle due parti esista sempre almeno una certa forma di libertà». Ci può essere una relazione di potere soltanto perché c’è sempre anche la libertà di opporsi a quel potere. Una libertà che esiste, propriamente, perché ci si può sempre opporre al potere che vorrebbe controllarne invece le condotte. Senza potere non c’è nemmeno libertà: «Questo vuol dire», conclude Foucault, «che, nelle relazioni di potere, vi è necessariamente possibilità di resistenza, perché, se non ci fosse possibilità di resistenza – di resistenza violenta, di fuga, di sotterfugio, di strategie che ribaltano la situazione – non ci sarebbero affatto relazioni di potere» (ivi, p. 285).
Il corpo, allora, è il punto mobile di incontro fra potere e resistenza. In questo senso il corpo è inseparabile dalle relazioni di potere che lo istituiscono come corpo umano. Cioè come il corpo di qualcuno che vive all’interno di uno spazio di potere. È di questo corpo che si occupava Franco Basaglia, in particolare del corpo “costruito” nelle istituzioni psichiatriche. Basaglia, com’è noto, non ha mai negato l’esistenza della sofferenza mentale – «non si vuol negare che il malato mentale sia una malato» (Basaglia 2017, p. 421), quello che gli interessava però era il modo in cui questo disagio viene trasformato, all’interno di una istituzione psichiatrica (tipicamente un manicomio), in una condizione permanente e “oggettiva”.
Una condizione, è questo il punto più terribile ancora attuale delle sue analisi, a cui il corpo che riceve la diagnosi di “malato di mente” finisce per identificarsi: «Il particolare tipo di approccio oggettivante finisce quindi per influire sul concetto di sé del malato. Il quale – attraverso un tale processo – non può non viversi che come corpo malato, esattamente nel modo in cui è vissuto dallo psichiatra e dall’istituto». La particolare relazione di potere in cui il corpo è inserito all’interno di una istituzione psichiatrica diventa infine il modo in cui quello stesso corpo pensa a sé stesso. L’istituzione ti pensa e ti istituisce in un certo modo, in questo caso come malato di mente, e così quello stesso corpo assume su di sé questa stessa diagnosi per poter sapere la “verità” di sé; il corpo diventa quello che l’istituzione pensa che quel corpo sia: «La malattia viene così a trasformarsi gradualmente in ciò che è l’istituzione psichiatrica e l’istituzione psichiatrica trova nel malato, costruito secondo i suoi parametri, la conferma della validità dei suoi principi».
Non è che c’è un corpo che ha certe caratteristiche, e che per questa ragione viene classificato come un corpo di un certo tipo; è piuttosto il punto di vista della istituzione che trasforma un corpo – che di per sé ha molte e disparate possibilità di essere, fra cui c’è anche quella legata alla sofferenza mentale – in un corpo univoco, il corpo adatto e adattato a quella particolare istituzione: «Dunque un malato […] si trova costretto a incorporare l’istituzione come unica possibilità di possedere un corpo» (ivi, p. 422). Si tratta di un punto decisivo, in cui il corpo ha un solo modo per diventare un’entità determinata, deve “incorporare” l’istituzione, deve cioè fare suo il punto di vista dell’istituzione; deve diventare esso stesso l’istituzione che lo vede in un certo modo. E così il corpo finisce per assumere «su di sé l’istituzione stessa come proprio corpo, incorporando l’immagine di sé che l’istituzione gli impone» (ivi, p. 423).
Questo corpo che ha incorporato l’istituzione Basaglia lo chiama «corpo istituzionalizzato» (ivi, p. 425), il corpo che non ha altro modo per pensarsi che quello che gli fornisce l’istituzione che lo ha preso in carico. Nel caso della istituzione psichiatrica, un corpo «istituzionalizzato» è il corpo, prosegue Basaglia, che si è definitivamente «rassegnato alla propria nuova dimensione», quel corpo che «incomincia ad essere definito nelle cartelle cliniche “ben adattato all’ambiente”, “collaborativo”, “ordinato nella persona”. Queste sono le definizioni che ne sanciscono la nuova condizione di soggetto passivo […]. È in questo momento che il malato diventa un corpo nel quale l’istituto è entrato» (ivi, p. 426).
È questa circolarità fra il punto di vista dell’istituzione sul corpo e il modo in cui il corpo finisce per pensare sé stesso ad essere al centro del pensiero e dell’azione di Basaglia. E a costituire un nucleo di pensiero ancora attuale. In effetti non è solo il manicomio a “costruire” dei corpi adattati a sé; ogni istituzione “costruisce” i corpi che possono vivere al suo interno, i corpi di cui l’istituzione ha bisogno per sopravvivere, così come questi corpi hanno bisogno dell’istituzione per continuare ad avere una identità, che non è altro che quella stabilita dalla istituzione, perché «il processo di insediamento dell’istituto nel corpo del malato [psichiatrico] avviene un’azione di forza che annulla a priori ogni altra alternativa» (ivi, p. 426).
È esattamente di questa «alternativa» che l’istituzione non sa che farsene, e che anzi cerca in tutti i modi di annullare, perché l’istituzione può funzionare in modo efficace e senza attriti solo quando il corpo è assimilato senza residui alle logiche istituzionali: «Il particolare tipo di approccio oggettivante [dell’istituzione medica, in particolare psichiatrica], finisce, quindi, per influire sul concetto di sé del malato, il quale – attraverso un tale processo – non può non viversi che come corpo malato, esattamente nel modo in cui è vissuto dallo psichiatra e dall’istituzione» (ivi, p. 538). È alla luce di questa originaria e fondamentale relazione di potere – che di fatto rende tutte le istituzioni in qualche modo istituzioni psichiatriche – che va inteso il lavoro di Franco Basaglia: non si tratta tanto, e solo, di liberare i “matti”, quanto di mettere i corpi di uscire dall’asfissiante logica del corpo istituzionalizzato. Come scrive Franca Ongaro Basaglia nella Premessa al volume che raccoglie gli scritti di Franco Basaglia, il suo impegno:
Segue due filoni […] profondamente intrecciati: il corpo (pesantezza, inerzia e passività, contemporanee ad una soggettività che tenta di impadronirsene) e le coercizioni di cui è oggetto (istituzioni, ideologie, la scienza, l’organizzazione sociale). Quindi corpo e istituzione o […] dal corpo all’istituzione, fino all’identificazione dell’istituzione come corpo (ivi, p. 11).
Si tratta allora di immaginare un movimento ulteriore rispetto a quello dal corpo all’istituzione: dall’istituzione ad un “nuovo” corpo, quello che abbiamo proposto di chiamare “corpo comunitario”, cioè un corpo che non chiede alla comunità di assegnargli un’identità univoca e predeterminata, quanto un’identità dinamica che si costruisce piuttosto nella relazione con gli altri. Un corpo del genere non incorpora l’istituzione, cioè non ha più l’unico destino di trasformarsi in un innocuo «corpo istituzionale», perché mantiene sempre una possibilità di assumere una modalità di essere «alternativa», e quindi potenzialmente conflittuale, proprio perché la comunità non è mai totalitaria: «Le contraddizioni della realtà sono costanti e reali» scrive Basaglia in Appunti di psichiatria istituzionale;
L’unica possibilità è prenderne atto e agire nelle contraddizioni stesse, senza illuderci di negarle, ignorandole: tendendo dunque ad una dimensione dialettica che abbia in sé i germi e la possibilità di ogni evoluzione successiva. È la problematizzazione della realtà in cui il malato è inserito che può dargli la possibilità di uscire dall’unidirezionalità della malattia, partecipando direttamente al processo di trasformazione di cui è uno dei protagonisti (ivi, p. 560).
Mentre il «corpo istituzionalizzato» è un corpo “unidirezionale”, ossia un corpo che è solo ciò che l’istituzione vuole da lui (identità = corpo istituzionalizzato), il corpo comunitario è un corpo sempre in “trasformazione”, un corpo “pluridirezionale”, un corpo libero, appunto. Un “corpo comunitario” è, infine, un corpo relazionale, un corpo non rinchiuso in una identità, perché ogni identità è appunto istituzionale, e quindi in fondo psichiatrica. Così risponde Michel Foucault, nel 1984, ad una domanda sull’idea di identità personale: «Se dobbiamo prendere posizione rispetto alla questione dell’identità, questo deve avvenire in quanto siamo esseri unici. Ma i rapporti che dobbiamo avere con noi stessi non sono rapporti di identità; devono essere, invece, rapporti di differenziazione, di creazione, di innovazione. È molto fastidioso essere sempre gli stessi» (Foucault 1998, p. 299). Un corpo comunitario non è mai lo stesso corpo. Dal corpo istituzionale al corpo comunitario. Dalla malattia alla salute.
Riferimenti bibliografici
F. Basaglia, Scritti 1953-1980, Il saggiatore, Milano 2017.
M. Foucault, Interventi, colloqui, interviste. 3. 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998.