Da tempo la teoria estetica non si occupa più della natura. La conversione antropocentrica del pensiero moderno lo dedica solo all’arte come prodotto della techné umana. «In principio era l’atto» (Goethe). Di fatto, non si occupa più del bello né del sublime, che fino al XVIII° secolo erano qualità soprattutto di paesaggi naturali. Un laghetto poteva essere bello, i ghiacciai polari sublimi. Oggi dell’estetica naturale è rimasta solo un’espressione: incantevole. Si vendono case “con vista incantevole”.

L’estetica moderna si occupa insomma solo di testi, nei quali si includono anche testi non scritti, come musica, immagini, sculture, film. Una certa filosofia anzi fa di tutto il mondo qualcosa di testuale. «Il n’y a pas d’hors-texte» (Non c’è alcun fuori-testo) disse Derrida. Qualcuno potrebbe dire però: fenomeni naturali – paesaggi, piante, animali, il cielo stellato – non sono testi ma possono essere perturbanti, drammatici, gioiosi, spettrali. Certamente non interpretiamo una catena montuosa o dei fiordi come enunciati testuali, ma li troviamo affascinanti così come ci affascina una poesia o un film.

Del resto, in ogni testo estetico non c’è solo senso, c’è qualcosa di “naturale” che può renderlo bello o sublime, comunque toccante. Ovvero, qualcosa che il testo coglie come per caso. Si prenda una composizione musicale. La musica è astratta, come l’arte detta appunto astratta, non esprime un senso che emerge dall’uso di un codice linguistico (a meno che non si ricorra al canto). Invece, consideriamo le opere pittoriche, cinematografiche, installazioni…tutte forme di testi che rappresentano qualcosa, che rimandano a dei significati.

Ora, in molte forme letterarie, nella poesia in particolare, non c’è solo significante che rimandi a un senso, ma anche pura “musica”. Un testo letterario deve avere “musica”. Quando si dice “quello scrive bene”, non si intende quello che dice scrivendo, ma la musica di questo scrivere. E mi chiedo: non c’è anche una musica dei concetti? Un bel libro di filosofia non ci attrae per la sua musica concettuale? E in effetti possiamo apprezzare la concatenazione concettuale di un libro di filosofia anche senza essere affatto d’accordo con il contenuto filosofico essenziale del libro. Ci appare chiara la musicalità dei suoni, molto meno la musicalità dei concetti, anche se questa musica ci seduce, in molti casi ci convince. E come questa musica può esserci nei concetti astratti, così può esserci nelle cose naturali.

È notevole il fatto che si possa apprezzare una musica di concetti anche senza capire i concetti. Talvolta ho invitato a un congresso o conferenza su un tema specialistico persone che non sapevano nulla di quel tema, e le reazioni di costoro mi hanno spesso colpito. Una volta, per esempio, portai a un convegno di filosofia un’amica che non sapeva assolutamente nulla di filosofia. Quando le chiesi chi secondo lei fossero stati i migliori a parlare, con mia grande sorpresa, lei mi indicò proprio quelli che io avevo considerato i migliori. Eppure credo di capire abbastanza di filosofia. In particolare uno, mi disse, lo aveva trovato molto bravo. In effetti era un filosofo con capacità retoriche di alto livello. Aveva parlato di questioni filosofiche molto complesse, eppure l’amica ignara aveva colto…che cosa? La musica non della voce (anche quella in verità) ma dei concetti. I concetti si accordano o si disaccordano come note.

Il nostro apprezzamento estetico non distingue mai nettamente i testi dai fenomeni: i testi si presentano come fenomeni, i fenomeni sembrano spesso testi. Ciò che li unisce è il loro poter fare musica. Per esempio, possiamo apprezzare la musicalità di suoni naturali: il canto dell’usignolo e delle cicale, il ritmo dello spezzarsi delle onde del mare solcato dagli stridii dei gabbiani, i fischi insistenti del vento. I fenomeni naturali ci piacciono in analogia a tecniche artistiche: così possiamo dire che le Dolomiti sono scultoree, i fiordi norvegesi sono pittorici, certe caverne sono architettoniche. Di un picco montagnoso diciamo che è “maestoso”, paragonandolo alla maestà signorile di un re o di una regina. Insomma, se ci mettiamo dal punto di vista dell’apprezzamento estetico – che resta qualcosa di abbastanza ostico per la filosofia –, testi prodotti dagli umani e fenomeni traccia di un processo naturale si confondono.

Direi che l’opera d’arte esubera il testo, sia esso sonoro, visivo, scritto, plastico. Spesso scandagliamo le opere d’arte come se fossero oggetti reali. Ad esempio, ci colpisce, in certi casi ci fulmina, un particolare di un’opera a cui l’autore non aveva forse nemmeno fatto caso. Ognuno potrebbe raccontare esperienze del genere. Il film di Louis Malle Nom et prénom: Lacombe Lucien (1974) si svolge al tempo dell’occupazione nazista della Francia. Un ragazzo francese di campagna, Lucien, si arruola nella polizia tedesca che combatte la Resistenza. L’anziana madre di Lucien, donna umile, lo viene a trovare in città e gli dice che al suo paese lo considerano un traditore e che gliela faranno pagare cara. Lucien la rassicura e la congeda. Vediamo la madre da dietro, vestita con abiti scuri come vestivano le donne anziane umili, che se ne va lentamente verso l’autobus che la riporterà al paese. Se ne va apparentemente tranquilla, e la gonna scura le oscilla sulle natiche. Niente di che. Eppure quella scena mi commosse quando vidi il film. È quel che Barthes chiamò il punctum (Barthes 1980). Ovvero un particolare che “ci punge” nel senso che ci commuove, ci turba. In certi casi fino alle lacrime.

Certamente possiamo interpretare la mia reazione come dovuta all’alone di senso che tutta la sequenza ispira: la commiserazione per la donna umile presa negli ingranaggi della Storia più grande di lei. La sequenza di lei che ci volge le spalle e se ne va è obbligata dal filo narrativo: dato che lei è venuta con la corriera, se ne dovrà ritornare con la corriera. Il fatto che la gonna oscilli lentamente è effetto del taglio usato all’epoca, che oscillava quando la donna camminava. Che cosa allora mi punge in quella scena? L’alone di senso della vicenda certo contribuisce all’effetto di quella sequenza, ma non lo spiega né lo esaurisce. È come ciò che ci seduce di un brano musicale, che magari lascerà indifferente qualcun altro.

Perché la ricezione estetica di un testo è sempre soggettiva, non c’è alcuna oggettività nella valutazione estetica (anche se alcuni critici pensano di essere loro oggettivi), quella che chiamiamo qualità estetica di un’opera è semplicemente gli effetti medi che dà ad una certa percentuale di lettori o spettatori o ascoltatori. Possiamo al massimo suggerire agli altri un certo modo di leggere un’opera, ma ciascuno poi la leggerà con il proprio cuore.

Posso verbalizzare l’effetto che fa quella sequenza della gonna vista da dietro solo dicendo “la vita degli umili è banale, anche quando è tragica”. Umiltà, tragedia e rassegnazione si coagulano in quella scena non come si intrecciano concetti, ma come si combinano eventi e cose. In fondo, quella scena avrebbe potuto commuovermi anche se non l’avessi vista a cinema, se ne fossi stato spettatore realmente in quella piazza. Spesso scene reali mi commuovono come se fossero scene di un film o di un romanzo, e scene di film e romanzi mi commuovono perché mi danno la sensazione che siano reali. Parliamo di effetto estetico quando il significante (il testo) e gli eventi (il caso) sembrano scambiarsi le parti, e questo effetto può essere prodotto sia dall’opera artistica che dalla realtà.

La differenza è che l’opera artistica seleziona le realtà interessanti per noi, mentre la realtà ci dà questa “puntura” solo di tanto in tanto. È nella selezione che l’artista fa di eventi e oggetti reali per esporli che si crea testo, ovvero piacere artistico e non solo estetico. Una donna anziana che si allontana perplessa è una sequenza banale del reale, ma il filmarla la incornicia come testo cinematografico. Insomma, l’effetto estetico va sempre oltre il senso, quando i casi della realtà e qualcosa che si vuole enunciare sembrano toccarsi, confondendosi.

Certamente ci sono dell’arte e letteratura contemporanee che fanno proprio la scelta di presentarci la realtà senza selezionarla, di darcela nell’insignificanza del suo perdurare nel tempo. Così, per esempio, piace molto alla critica oggi il film Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975) di Chantal Akerman. La prestigiosa classifica Sound and Sight nel 2022 l’ha promosso miglior film della storia del cinema. Questo film di oltre 200 minuti descrive in modo lento e statico tre giorni di vita della protagonista, una madre single con un figlio adolescente, con problemi di soldi e che per questo di tanto in tanto si prostituisce. I dialoghi sono rari, quasi nulla di interessante accade, a parte un evento tragico finale. Da dove nasce la commozione estetica, quindi, data dal film? Anche qui si tratta di un coagulo di umiltà, tragedia e rassegnazione. Dagli eventi della realtà non vengono selezionati quelli interessanti, perché il film vuol farci interessare agli eventi di una realtà a un tempo umile, rassegnata e tragica. Selezione avviene, ma nel senso che questa realtà, filmata quasi in tempo reale, viene eletta a oggetto di rappresentazione estetica.

Certamente quella realtà quotidiana così scadente – la realtà in sé è sempre scadente, questa è la frase che Paolo Sorrentino mette in bocca a Fellini in È stata la mano di Dio (2021) – è ricostruita, è una simulazione, ma ci dà il senso della realtà quotidiana come in un documentario. E questa realtà diventa testo non per le implicazioni femministe del film, ma proprio perché apprezziamo l’atto, per definizione umano, della regista di mettere in evidenza questa realtà simulata. La lentezza del film è lo strumento princeps di simulazione della realtà, che è sempre molto molto lenta. La realtà è tutta imbottita di tempi vuoti.

Anche quando il pittore o il cineasta ci presenta un albero qualsiasi, ci incuriosisce la sua tendenziosità: cosa vuol dirci? Cosa vuol mostrarci? La rappresentazione ci spinge a trovarne il senso, ma proprio così facendo ci costringe a considerarlo testo artistico, ovvero a fare di quel fac-simile un significante. Invece un fiordo norvegese come il Geiranger non è un significante, è il prodotto di passate glaciazioni, ma percorrerlo può affascinarci perché sembra significare. Ovvero ci suscita un bisogno di senso, che però si acqueta sempre nella contemplazione di qualcosa che semplicemente è. Non è un caso allora che la tradizione popolare norvegese abbia creato attorno alle tante cascate del fiordo una serie di analoga antropomorfici, che evocano quasi sempre l’erotismo o il diabolico. Per esempio, una cascata con sette rivoli spumeggianti è chiamata “Le sette sorelle”, insomma sette ragazze, mentre una cascata solitaria e quasi melanconica sull’altra riva del fiordo è identificata all’eterno spasimante delle sette sorelle che mai raggiungerà. Questa umanizzazione di fenomeni naturali è l’alone stesso dell’estetica, in quanto ci fa credere, nel fondo di noi, che quei fenomenisiano prodotti, magari da un dio, magari sono messaggi cosmici misteriosi. L’estetica naturale – così bistrattata dalla teoria estetica moderna – è il sospetto delizioso che la natura simuli l’arte.

La frase succitata di Derrida («Non c’è alcun fuori-testo») andrebbe allora rovesciata: un testo è tale proprio perché vi si coglie del fuori-testo. Il supposto autore è lei stessa un fuori-testo. Possiamo impiegare qualsiasi oggetto naturale per farne un testo, ma un testo non è un oggetto naturale. È un ente significante, appunto, proprio nella misura in cui la significazione è problematica. Così, posso benissimo presentare come opera d’arte un testo prodotto da ChatGPT, ma ciò che conterà più del testo è la presupposizione di un vivente (me come auctor) grazie alla quale ci chiediamo prima di tutto “perché ci ha voluto presentare un testo prodotto da ChatGPT?”. Sono anzi convinto che prima o poi ciò avverrà, come già pietre o biciclette sono state esposte come oggetti d’arte, ma il testo prodotto dalla macchina diventerà significante grazie al fatto che qualcuno l’abbia selezionato ed esposto. Ciò che farà di qualcosa un testo, anche letterario, sarà il suo esser stato scelto come testo da qualche fuori-testo.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980.

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