Da alcuni anni le democrazie occidentali si confrontano con un nuovo nemico. Chiamerò questo nemico con il suo nome giornalistico, che prenderò qui come etichetta di un’evidenza empirica difficilmente contestabile. Si tratta delle fake news. Difficile dire quando è cominciato il fenomeno: la manipolazione dell’informazione e la menzogna sono all’ordine del giorno da sempre in politica. Il fenomeno attuale sembra tuttavia presentare caratteri affatto nuovi. Per comodità e per tentare un minimo di periodizzazione prendiamo come termine di paragone il prototipo del politico che si serve delle fake news. A livello mondiale un simile prototipo lo ha offerto Donald Trump, il cui mandato come presidente degli Stati Uniti è durato dal 2017 al 2021. Ma ovviamente la presidenza Trump corrisponde solo al momento di piena manifestazione del fenomeno, che aveva già cominciato a emergere prima dell’elezione del tycoon americano.

Il fenomeno delle fake news ha suscitato un immediato e vasto interesse nella comunità filosofica internazionale, ma se ne è parlato soprattutto sotto il profilo di quella che è stata chiamata la “postverità”, preferibilmente senza il trattino a indicare l’apparizione di una nuova categoria di pensiero. La postverità apre una nuova frontiera nell’esercizio della menzogna in politica: non si tratta più solo di deformare o censurare le verità di fatto. La postverità attacca l’etica del discorso pubblico in quanto mira ad ampliare i confini entro i quali può essere tollerato, o addirittura approvato, un discorso interamente fondato sull’alterazione della realtà. La postverità, a differenza della menzogna, non nasconde il fondamento mendace delle proprie affermazioni, ma lo ostenta. La postverità non tenta di affermare un’interpretazione fallace o tendenziosa della realtà: al contrario, crea una versione alternativa di realtà, attraverso la quale controlla e governa la realtà fattuale. È stata Kellyanne Conway, consigliera del presidente Trump, a usare l’espressione “fatti alternativi” (alternative facts) per difendere durante una conferenza stampa alcune affermazioni mendaci di Sean Spicer, portavoce della Casa Bianca.

Sono molteplici le implicazioni filosofiche della postverità: si va dall’etica alla logica. Non a caso si è assistito a un fiume di pubblicazioni in merito: limitandomi a due tra i più originali contributi italiani, ricorderò qui la riflessione di carattere teoretico di Maurizio Ferraris e quella di orientamento semiotico di Anna Maria Lorussi. In questi due contributi ne va, da un lato, appunto del modo di pensare che si accompagna alle manifestazioni della postverità e, dall’altro, dei dispositivi retorici e narrativi che ne sorreggono il discorso. Ci muoviamo all’interno delle logiche di validazione del discorso “postaletico” e dei suoi apparati enunciativi.

Il saggio di Donatella Di Cesare Il complotto al potere, di recente pubblicato dall’editore Einaudi nella collana Le Vele, compie un significativo cambio di prospettiva rispetto alle teorie sulla postverità, di cui ho sopra ripercorso alcuni aspetti essenziali. Di Cesare non è solo filosofa, ma è anche, forse più di altri filosofi, un’intellettuale politicamente impegnata, parte attiva del dibattito pubblico nella stampa, sui media e in generale in seno alla società civile. Il carattere engagé della sua riflessione ha senza dubbio reso più acuta nell’autrice quella sensibilità politica che le ha permesso di cogliere il riemergere, negli ultimi anni, di un tratto della menzogna politica: si tratta della crescente diffusione di un radicato atteggiamento complottista, tanto nel discorso politico quanto nel sentimento condiviso dall’opinione pubblica.

Se Trump era il prototipo del politico nell’epoca della postverità, mi sembra che la nascita di movimenti come i no vax e l’emergere di pulsioni populiste e sovraniste nelle democrazie occidentali ripropongano oggi molti aspetti esemplari di una teoria del complotto: l’assoluta convinzione dell’esistenza di un piano di governo del mondo; la ricerca paranoica di nessi casuali del tutto aleatori tra fenomeni diversi; la costruzione di un nemico irriducibile contro cui ogni azione di difesa è lecita. Ma, prima di arrivare a toccare il nucleo incandescente del complottismo, Di Cesare ricostruisce con mano sicura una breve genealogia del complotto e dei suoi congeneri, la cospirazione e la congiura. Fin dalla loro etimologia le ultime due evocano un’unione di eletti, una società segreta che opera nel corpo politico dello stato. Si tratta di una comunione di spiriti e perfino di respiri (co-spirare); è il giuramento collettivo (con-giurare) che istituisce un vincolo in vista della realizzazione di un’azione comune. Congiura e cospirazione ripropongono l’antagonismo di pubblico e privato non più secondo la coppia di concetti politico/apolitico, bensì come dialettica tra segretezza e pubblicità dell’agire politico. I congiurati di ogni tempo, da Bruto e Cassio fino a Babeuf, sono stati convinti di agire per il bene comune.

Il complotto, e come parola e come concetto, rimanda a tutt’altra dimensione politica. La parola, ricorda Di Cesare, viene dal francese complot, che agli albori dell’età moderna, stava a indicare il formarsi di una folla. Se passiamo poi all’inglese, in cui la semantica del complotto trapassa dal francese, vediamo come il verbo to plot, “tessere trame”, “complottare”, mantenga tuttora un legame evidente con il termine plot, “trama”, comunemente usato per riferirsi agli intrecci narrativi in letteratura, nel teatro o nel cinema. Il complottismo presenta dunque almeno due tratti essenziali: esso ha di mira sempre gli orientamenti politici e d’opinione delle masse e non può prescindere da una dimensione narrativa. Dai Protocolli dei Savi di Sion, modello della propaganda antisemita moderna, creato dalla polizia politica zarista alla fine del XIX secolo, ma spacciato come il piano di un complotto ebraico mirante all’istituzione di un governo mondiale, fino al mito contemporaneo del Piano Kalergi o all’ossessione dell’estrema destra francese per il tentativo di “sostituzione etnica” della popolazione bianca con immigrati africani, il complottismo si nutre di narrazioni capaci di penetrare nel profondo la mentalità delle masse e di influenzarne scelte e azioni.

Per elaborare una teoria critica del complotto, tra i diversi autori che cita, Di Cesare recupera in particolare, sebbene in modo autonomo e originale, la lezione di due grandi maestri del Novecento: Hannah Arendt e Umberto Eco. Il secondo è il teorizzatore forse più rigoroso di quello che amava chiamare il “pensiero pirla”: la ricerca ossessiva di connessioni tese a dimostrare la fondatezza di teorie assolutamente prive di fondamento, che dà rilievo a dettagli insignificanti e dà luogo a ipotesi assurde. Pur stimando l’impostazione illuminista della critica alle logiche complottiste di Eco, Di Cesare sembra metterne in rilievo i limiti politici. Condivido l’istanza politica di Di Cesare, anche se continuo a credere che la forza della proposta di Eco stia proprio nel confine preciso che essa si dà – e che la rende in prospettiva integrabile anche all’interno di un programma di “resistenza” al complottismo.

Ma è a mio parere soprattutto con Arendt che Di Cesare condivide l’ethos del pensiero. Arendt è tra l’altro la pensatrice politica che nel Novecento non ha difeso la verità contro la menzogna, ma ha prima di tutto distinto tra “verità di ragione” e “verità di fatto” e ha quindi posto come primo requisito la capacità di distinguere tra la costruzione ideologica di para-verità di regime – basti pensare all’uso aberrante della biologia da parte dei nazisti – e il significato politico che ha la scelta di comunicare, ovvero di censurare, le verità di fatto: si pensi alla scomparsa dei dirigenti caduti in disgrazia dalle fotografie e dai filmati della propaganda stalinista. Arendt coglie come politico non sia il fatto di dire sempre la verità, bensì la capacità di distinguere tra forme diverse del vero e soprattutto la capacità di giudicare sul significato politico della verità e della menzogna in rapporto alle azioni di cui siamo responsabili o testimoni e dunque in rapporto allo “stato di salute” dello spazio pubblico in cui ci muoviamo, che è uno spazio, appunto, la cui sopravvivenza dipende dal modo in cui gli esseri umani vi esercitano la parola e l’azione.

Seguendo i fili che ha saputo abilmente tessere, Di Cesare coglie così uno degli aspetti principali del complottismo contemporaneo: nel momento stesso in cui una teoria del complotto indica l’esistenza di un nemico che ci minaccia, è essa stessa che sta minacciando la nostra vita democratica, mirando a stabilire una nuova forma di controllo sulle menti e sulle opinioni. Le masse influenzate dal complottismo finiscono per essere allo stesso tempo vittime e carnefici: vittime non del complotto che fantasticano, bensì proprio delle teorie complottiste; e carnefici nel momento in cui, istigate da quelle teorie, possano mai decidere di passare all’azione contro il nemico che è stato loro indicato. È contro questa deriva politica che il saggio di Donatella Di Cesare chiama non solo a un esercizio di riflessione critica, ma anche a un risveglio dell’impegno individuale e collettivo.

Riferimenti bibliografici
M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, il Mulino, Bologna 2018.
A.M. Lorussi, Postverità, Laterza, Roma-Bari 2018.

Donatella Di Cesare, Il complotto al potere, Einaudi, Torino 2021.

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