Quando ero dottorando, mi capitò di ascoltare un interessante giudizio a proposito della fortuna critica dell’opera di Hannah Arendt. Non ricordo chi fosse a esprimere tale giudizio, ma il suo contenuto mi rimase impresso nella mente. Si sosteneva che si può interpretare la ricezione di Arendt comparandola con quella di Michel Foucault: ai momenti di relativo oblio del secondo corrisponderebbero infatti i picchi di fortuna della prima, e viceversa. Complice il delinearsi all’orizzonte della crisi finanziaria mondiale, abbiamo vissuto in questi anni un “momento foucaultiano”, perché è entrato in crisi il modello di governo — di “governamentalità”, per dirla con Foucault — dell’economia globale. Le evoluzioni della crisi hanno portato a un suo progressivo estendersi alla sfera politica: non più le regole dell’agire economico, ma i modelli di rappresentanza sono diventati oggetto di critica e, in taluni casi, di una radicale rimessa in discussione. È sintomatico il fatto che siamo passati dal parlare di una prossima deriva tecnocratica della politica all’emergere dei fenomeni del populismo — di destra, di sinistra o post-ideologico che fosse — e del sovranismo.

Grande è la confusione sotto il cielo e non mi azzarderei a sostenere che per questo motivo la situazione è eccellente. Di certo, però, è un momento propizio per riproporre l’attualità del pensiero di Hannah Arendt. Fortunatamente l’accademia ha il pregio — è bene ricordarlo soprattutto ai suoi numerosi detrattori — di mantenere vivi determinati filoni di ricerca, anche quando al “grande pubblico” essi non appaiono più così “alla moda”. Così, nel breve ma incisivo saggio Democrazia sorgiva: note sul pensiero politico di Hannah Arendt, Adriana Cavarero, filosofa italiana di rilievo internazionale, unisce alla finezza della studiosa l’acume della teorica: esso condensa infatti anni di precedenti lavori seminali, dedicati a mostrare come la dimensione sensibile, legata all’espressività (ad esempio della voce), e narrativa costituiscano, secondo un paradigma arendtiano, due tra i prerequisiti fondamentali per il darsi di un autentico agire politico. Ma esso mostra anche come, mentre il primo entusiasmo per il ritorno alla democrazia diretta cede il passo al vuoto delle proposte, il pensiero di Hannah Arendt possa proporre una “terza via”: quella appunto, come recita il titolo del libro, di una “democrazia sorgiva”. Nell’articolazione del discorso di Cavarero tale proposta si regge su tre pilastri.

In primo luogo c’è la riscoperta della dimensione pubblica, della piazza. Si tratta di una riscoperta che è avvenuta innanzi tutto nel concreto della partecipazione collettiva e dietro la spinta di movimenti, e prima ancora di bisogni, di natura politica che non trovavano un’espressione adeguata attraverso i canali tradizionali. Tale fenomeno non si è presentato solo in quelle aree del mondo dove non si è ancora affermata, del tutto o in parte, la democrazia rappresentativa di impianto liberaldemocratico. I fenomeni in questo caso corrono più rapidamente dei nostri sforzi di ridurli a concetti e gli esempi in questo caso si sono moltiplicati dopo l’uscita del libro: Cile, Libano, Iraq e Iran, per citare solo i più notevoli.

È però un fenomeno che riguarda anche il mondo occidentale e la crisi di rappresentanza delle istituzioni politiche. Sotto questo profilo, le ipotesi formulate da Cavarero sul ritorno a un momento pubblico della politica posso essere proficuamente messe a confronto con le riflessioni di studiosi come Pietro Montani ed Elena Tavani, i quali, sempre prendendo spunto da Arendt, riflettono sulla costituzione estetica e performativa dell’azione politica e sul connubio, che si delinea a partire dalla modernità, tra politica, estetica e tecnica. Gli spazi pubblici contemporanei sono in effetti piazze mediatiche, mediazioni tra immagini e azioni, luoghi di negoziazione tra reale e virtuale. Si tratta di capire fino a che punto si tratti di una alterazione artificiale e posticcia della politica e fino a che punto possa profilarsi qui un suo ripensamento.

In secondo luogo, Cavarero riflette sulla questione della felicità dell’azione. La felicità pubblica è una categoria politica che, nel corso della modernità, ha quasi sempre — e fatalmente agli occhi di Arendt — ceduto il posto ad altre categorie fondamentali, come la giustizia o il riconoscimento. Parallelamente si è teso a ridurre la questione della felicità pubblica alla somma delle felicità private: prestigio sociale, successo economico, benessere materiale. In realtà, per Arendt, l’agire politico è in se stesso portatore di felicità nella misura in cui traspone la singola esistenza in una dimensione plurale, capace di riorientarne gli scopi e di risignificarne i valori.

Il pursuit of happiness sancito dalla Costituzione americana non è un invito all’arricchimento individuale, bensì alla ricerca degli altri come orizzonte di senso di una vita felice perché condivisa. Anche qui mi pare che torni utile il confronto con un’estetica intesa come riflessione critica sull’esperienza, non come mera filosofia dell’arte. Perché, come sostiene Stefano Velotti, l’idea di opera d’arte come azione riuscita che per questo, sebbene in assenza di criteri dati a priori, invita a un giudizio di gusto, non solo investe la dimensione etico-politica del giudicante, ma innesca anche una dialettica positiva tra controllo e indeterminatezza (e quindi libertà) dell’agire e del giudicare. E in questo senso si pone come una soglia di resistenza al controllo inteso come soggezione a un potere che, tra le altre cose, sancisce in via preliminare e definitiva la distinzione tra “sensi della vita” ammessi e censurati.

Infine il terzo punto, il più importante: l’idea di democrazia sorgiva. Qui Cavarero rielabora e amplia in maniera originale una delle categorie centrali del pensiero arendtiano: quella di natalità. La natalità in Arendt indica una condizione esistenziale del soggetto umano, il quale è consegnato paradossalmente alla necessità della libertà, cioè alla capacità di dare inizio a qualcosa di nuovo attraverso le sue azioni. L’idea di democrazia sorgiva fa segno alla possibilità, e all’urgenza, di individuare quelli che definirei dei nuclei generativi di natalità. Essi non vanno intesi in senso strettamente materiale: si tratta, al contrario, di riconoscere quelle occasioni e modalità d’azione che aprono spazi per una rimessa in discussione dei modelli tradizionali di partecipazione politica e per la formulazione di nuove proposte.

Quello di democrazia sorgiva è pertanto, mi si consenta di dire, un concetto “trascendentale”, che non si limita a designare classi di fatti politici — i quali potrebbero andare dalla lotta per i beni comuni o per il cambiamento climatico, al ritorno del femminismo, fino ai tentativi di rivoluzione contro i regimi dittatoriali — ma indica un orizzonte di riferimento, entro il quale diversi esperimenti ed esperienze possono trovare asilo.

Riferimenti bibliografici
A. Cavarero, Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019.
P. Montani, Bioestetica, Carocci, Roma 2007.
E. Tavani, Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo, Manifestolibri, Roma 2010.
S. Velotti, Dialettica del controllo, Castelvecchi, Roma 2017.

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