Una fotografia di Jackie Coogan, l’attore bambino più celebre del cinema muto, staziona sul pianoforte della vecchia casa natale di Jacques Derrida ad El-Biar: una fotografia che, sebbene la casa sia stata venduta e abitata da altri, sembra resistere ai cambiamenti e all’usura del tempo. Quando la regista Safaa Fathy visita la dimora, durante le riprese di D’ailleurs Derrida (1999), la ritrova lì, come una vestigie, testimone di una supposizione che il filosofo fa sull’origine del suo nome di battesimo, Jackie: probabilmente la madre, affascinata dal “monello” di Chaplin, decide di chiamare il figlio Jackie proprio in suo onore. Giunto in Francia dall’Algeria, Derrida cambia il suo nome in Jacques, come per mettere a tacere un passato geografico e nominale che lo lega saldamente alle sue origini. «Ancora una storia di cinema e fermo-immagine», afferma il filosofo in una delle dense pagine di Tourner les mots: au bord d’un film (2000).

Ecco il primo tassello del rapporto che Derrida a partire dalla sua nascita intrattenne col dispositivo cinematografico: un legame genealogico, marcato dal segno dell’assenza e della rimozione. Da qui in poi, il cinema, che negli anni dell’infanzia era stato soprattutto un momento d’escapismo dall’ordinarietà, si insinua debolmente nella sua carriera accademica, restando più che altro una questione “personale”, o meglio, biografica. Il lungometraggio D’ailleurs Derrida e il libro Tourner les mots: au bord d’un film, scritto après coup (dopo le riprese e il montaggio del film), sono la dimostrazione di questa stretta connessione tra il cinema e il percorso di vita del filosofo: entrambi si servono della scrittura come medium in grado di arginare, con le sue tracce e incisioni, l’impossibilità dell’autobiografia che, per Derrida, ricordiamolo, è già da sempre otobiografia, una scrittura che viene dall’altro, da una sorta di fantasma identitario.

In quel rovesciamento del rapporto tra soggetto e oggetto, in quella dissimmetria di sguardo, cara alle teorie psicoanalitiche del cinema, il film, come ogni scrittura, ci riguarda: «Vedete, il film guarda. Non è cieco, e vi guarda dritto negli occhi, con uno sguardo diretto alla vostra assenza» (Derrida 2000, pp. 149-150). È l’effetto visiera della famosa scena amletica, rimembrato da Derrida in Spettri di Marx (1993) in cui, alzato o abbassato, l’elmo del fantasma di re Amleto ricorda che il suo sguardo spettrale può vedere senza essere visto. 

Fantasma. Una parola chiave nelle riflessioni “cinematografiche” di Derrida che, fin da Ecografie della televisione (1997), fanno i conti con la dimensione spettrale delle cosiddette “teletecnologie” (la scrittura, la televisione, il cinema). Prolungamenti della tecnica che sono delle protesi dell’uomo, degli arti fantasma: i responsabili della spettralizzazione teletecnologica del reale. In Ecografie della televisione, il filosofo conia i termini artefattualità e attuvirtualità allo scopo di riferirsi a un’attualità attivamente prodotta e performativamente interpretata da numerosi dispositivi fattizi o artificiali. A suo parere non esiste un “tempo reale” della ripresa, ma solo un effetto diretta (ivi, p. 43), prodotto da una serie di modalità d’intervento sul “reale” (montaggi, tagli, ricontestualizzazioni) che virtualizzano sia lo spazio del discorso che quello dell’immagine.

Derrida, dando attenzione a come le tecnologie a lui contemporanee iniziassero a lavorare sull’eliminazione del carattere di mediazione dell’immagine – dimenticando invece che l’immagine si dà nel mezzo tra una dimensione d’opacità e di trasparenza – anticipa sia le teorizzazioni di Boltin e Grusin sulla politica della ri-mediazione (cioè sulla pluralità e la convergenza delle forme di vita dei media) che quelle ancora più recenti di Pietro Montani sulla necessità di un lavoro di confronto intermediale all’interno del processo di autentificazione delle immagini (L’immaginazione intermediale, 2010).

Da queste considerazioni generali sull’iconosfera, Derrida, più avanti nel testo, opera uno spostamento sul dispositivo cinematografico, descrivendolo come percorso da una logica spettrale «che è de facto una logica decostruttiva» (ivi, p. 70). La logica spettrale che lo attraversa, sostenendo la coesistenza simultanea di termini opposti (il presente e l’assente, il visibile e l’invisibile ecc.), include l’esperienza dell’altro invece che espellerla, divenendo così il luogo più adatto ad ospitare l’evento della decostruzione.  

Si situano in questo solco anche le considerazioni che il filosofo propone intorno al differimento del corpo filmato da quello reale. La dimensione decostruente e fantasmatica del cinema è infatti attivata anche da quel «divorzio fra l’Attore e me» (Derrida 2000, p. 75) che si verifica nel momento in cui si è filmati dalla macchina da presa: essere attore è una situazione ipnotica, in cui la propria volontà d’azione si intreccia con l’essere-agiti dall’altro (le telecamere, la regia, il set, l’apparato tecnico, gli spazi e i tempi della produzione), determinando uno sdoppiamento spettrale del sé. 

Dunque, il cinema è «l’art de laisser revenir les fantômes», afferma il filosofo in Ghost Dance:  una tele-scrittura che contiene già al suo stesso interno dei movimenti decostruttivi, una componente strutturale di autodecostruzione. Come argomentano Brunette e Wills, autori di Screen/Play and Derrida Film Theory (uno dei pochissimi testi dedicati al rapporto tra il pensiero del filosofo e la teoria del film), il “testo” filmico, come tutti gli altri testi, è un «rendez-vous manqué» che presuppone strutturalmente una distanza, un tempo differito tra l’autore e il fruitore della scrittura (1989, p. 61). In questa spaziatura tra chi scrive e chi legge, si depositano le possibilità di una continua riscrittura del testo, secondo la dinamica per la quale ogni lettura è un’ulteriore scrittura ai margini della prima.  

Potremmo inferire che un’analisi del film condotta da Jacques Derrida sarebbe difatti affrontata con un atteggiamento simile a quello che il filosofo adotta nei confronti dell’analisi di un testo filosofico: entrambi contengono al loro interno configurazioni testuali decostruibili che, dotate di una capacità compulsiva di rimandabilità all’altro, si dilatano continuamente verso il nuovo, sorreggendo l’emersione di nuove possibilità di senso. Per quanto riguarda il testo filmico, però, le possibilità di una scrittura su scrittura sono addirittura maggiori di quelle di un testo filosofico: come ci ricorda Jacques Rancière, il cinema è «un sistema di scarti irriducibili» (2011, pp. 11-12) che dipende, più d’ogni altra arte, dal contributo personale che lo spettatore vi apporta attraverso i propri processi di memoria e immaginazione.     

È il montaggio, elemento comune ad ogni testo e, allo stesso tempo, specifico del cinema, a sostenere la forza del gesto decostruttivo in ballo nel testo filmico. Secondo Derrida la scrittura è ispirata e aspirata dall’idea di montaggio: ogni scrittore è un monteur impegnato in qualcosa di molto simile alla progettazione di un film e, il montaggio, è la graphie del cinema che con le sue circoncisioni e escissioni cuce la forma del film (2000, p. 16).

Da questo inscindibile legame tra il montaggio e la scrittura muove l’appassionante opera di Marie-Claire Ropars, Le Texte divisé: Essai sur l’écriture filmique (1981) che deve la sua genesi proprio alle implicite meditazioni sul cinema del filosofo francese. Ropars mediante l’individuazione di una prospettiva teorica che coinvolge il cinema, la filosofia, la linguistica e la psicoanalisi, collega Benveniste a Freud e poi a Derrida e Ejzenštejn, cercando di rintracciare nelle loro teorizzazioni la natura della scrittura filmica: la questione diviene conservare la specificità della parola e dell’immagine e poi approdare, in uno scambio generativo tra le due parti, a delle parole  “iconiche e a delle immagini “verbali”.   

Il titolo del testo Tourner les mots, cioè “girare le parole”, è a proposito significativo. Cosa vuol dire girare le parole? Le parole sono presenti in un film nella misura in cui rinunciano a sé stesse, mettendosi al servizio di una scrittura cinematografica. La rinuncia delle parole, tuttavia, non è sinonimo di cancellazione del loro statuto semiologico, piuttosto di un rafforzamento di questo statuto: la parola esposta alla macchina da presa, nel momento in cui è “girata”, rompe gli argini, straborda, diviene un supplemento di senso inafferrabile. Ecco perché, secondo Derrida, un’altra specificità del cinema si ritrova nella sfida che viene ingaggiata fra la parola e l’immagine:

[Le parole] dovevano rispettosamente cedere il posto alle figure proprie del cinema, a questa scrittura senza precedenti e senza equivalenti. Bisognava ridurre al silenzio la parola pedagogica, la garanzia discorsiva, persino la continuità di una narrazione o l'insistenza compiacente della confessione. Silenzio, le parole, si gira! Silenzio le parole, anche quando si parla! Si gira! (Derrida 2000, p. 20)

Ripercorrendo il legame che Jacques Derrida ebbe col cinema si giunge alla consapevolezza che, nonostante il filosofo nella sua sterminata produzione non abbia quasi mai ragionato esplicitamente sulla settima arte, la maggior parte dei suoi testi conservano, talvolta ben celate (da Della Grammatologia, 1967, passando per La disseminazione, 1969, Margini della filosofia, 1972 fino a La verità in pittura, 1978), delle intuizioni connesse o applicabili ai tempi, ai modi e ai luoghi del dispositivo cinematografico. In accordo con tutto il suo pensiero, sempre nel tra dei significati e ai margini delle soluzioni, Derrida resta silenziosamente au bord d’un film: perché solo decentrando lo sguardo è possibile vedere davvero qualcosa.    

Riferimenti bibliografici
P. Brunette, D. Willis, Screen/Play and Derrida Film Theory, Princeton University Press, Princeton 1989.
J. Derrida, S. Fathy, Tourner les mots. Au bord d’un film, Éditions Galilée, Parigi 2000.
M. C. Ropars-Wuilleumier, Le texte divisé: Essai sur l’écriture filmique, Presses universitaires de France, Parigi 1981.
J. Rancière, Les écarts du cinéma, La fabrique, Parigi 2011.

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