La casa e il mondo. Il titolo di uno dei più intensi film (1983) di Satyajit Ray, tratto dal romanzo omonimo di Tagore, è un quasi possibile meta-titolo per la sua filmografia. Le cui immagini, personaggi, storie, sono attraversati da quella che, lungi dal configurarsi come opposizione da risolversi con la pendenza in favore di un polo o dell’altro, è invece endiadi. Provarsi a isolare un motivo che in sé comprenda gli altri possibili è forse operazione riduttiva a fronte di una filmografia vasta e variegata, che l’ampia retrospettiva dedicata quest’anno al cineasta indiano dalla Festa del cinema di Roma, consente di riavvicinare nella sua complessità. Quello di Ray è un cinema di interdipendenze, di risonanze tra motivi diversi in cui uno sembra fatalmente chiamarne altri in causa. Tra casa e mondo, allora, arcaismo e rinnovamento, autonomia e subordinazione, vita e morte, individuale e collettivo, e che, però, si scoprono intrecciati. Se i suoi personaggi tentano spesso di emanciparsi, di apprendere il mondo da sé, di padroneggiare le proprie vite a far di se stessi “casa”, collezionando sforzi, riuscite o insuccessi, conoscendone l’ebbrezza di farlo da indipendenti, parallelamente realizzano che essere al mondo significa scoprirsi, coi propri occhi, interdipendenti, relazionali, legati a tutto quanto è in esso vivente.
È così nella trilogia di Apu. Il protagonista bambino in un villaggio povero effettua le sue prime scoperte (Il lamento sul sentiero, 1955), apprende una vita che è soprattutto organicità, interdipendenze (la sorella maggiore, la zia, la madre, la natura intorno), si conquista un’istruzione (L’invitto, 1957) che è emancipazione individuale e distacco dai familiari, coltiva velleità letterarie, si ritrova vedovo con un figlio che abbandona alla nascita e riprende dopo anni (Il mondo di Apu, 1959). Quanto più Apu si trova nella condizione di controllare da sé la propria esistenza, tanto meno “riesce”, come se l’affrancarsi da una condizione economica e sociale e poi da legami parentali, affettivi, lo relegasse a una stasi improduttiva anziché consentirne la realizzazione. Che passa solo per un riguadagnarsi a una vita che è relazioni, per un riconoscimento dell’interdipendenza tra i viventi. Essere realmente vivi è, per Ray, armonizzare casa (letteralmente, l’ambiente domestico o anche tradizioni, costumi autoctoni indiani, o ancora come aspirazioni personali del singolo) e mondo (gli “altri”, i viaggi, le scoperte, l’assimilazione di nuovi costumi, nuovi sistemi valoriali “occidentalizzati” nel paese che cambia), oppure metterli entrambi in discussione, trascegliendo dall’uno e dall’altro ciò che “fa vivere”.
Come Apu con lo studio si affranca dal destino “predeterminato” dalla sua condizione sociale (il “mondo” scalza la “casa”), così accetta, piegandosi a un costume tradizionale (la “casa”) un matrimonio improvviso, combinato con una donna che neppure conosce. E che però “impara” ad amare, come apprendendo da sé un’affettività indipendentemente dalle prescrizioni tradizionali, e così riprenderà con sé il figlio, imparando a diventare autonomamente padre, come non lo si fosse già per il solo automatismo biologico.
Vivere coi propri occhi, apprendere da sé un mondo, è ciò che impegna soprattutto le figure femminili di Ray. Come ne La grande città (1963), la cui protagonista, contravvenendo al dettato tradizionale che la vuole relegata all’ambiente domestico, si immerge nel mondo del lavoro. O nello stesso La casa e il mondo, in cui Bimala è divisa tra gli opposti orientamenti del marito indipendentista ante litteram, ma propenso ad assimilare il meglio del pensiero occidentale anche per disfarsi dei costumi locali più retrivi, e di un amico che invece intende l’autonomia come rifiuto di ogni valore allogeno in accordo a quelli “indigeni”, per quanto arcaici. E soprattutto ne La moglie sola (1964): Charu, trascurata da un marito tutto preso dal suo giornale, si lega a un eccentrico e più giovane cugino che, se incoraggia il talento letterario di lei, al contempo è involontariamente il fattore che innesca una crisi coniugale.
Apprendere il mondo da sé significa anche fare i conti con la propria indipendenza, governarla, risponderne. Che sia ricercata, costruita (Apu o Charu), o anche mancata, come in La dea (1960), la cui protagonista “subisce” il dogmatismo religioso dei familiari che la credono dea reincarnata. Incapace di uno sguardo “suo” sul mondo, assoggettata a quello altrui, quindi, come invece è per Charu, che nella scena iniziale de La moglie sola passava di stanza in stanza a guardare col binocolo dalle finestre sulla strada, segno di una relazione “autonoma” col mondo già in costruzione, distante e partecipe al contempo.
Ma di endiadi e interdipendenze sono intrise soprattutto le immagini del cinema di Ray. Quando ne L’invitto il padre del protagonista è colto da malore alla sommità di un ghat di Benares, l’inquadratura si trova a cogliere anche uno stormo in volo. Lo stesso che si rivedrà al culmine dell’agonia di lui. Più tardi, è una processione di lucciole ad accompagnare la dipartita della madre. Ne La sala da musica (1958), quando i musicisti ospiti del protagonista-mecenate, che nella propria melomania dilapida un patrimonio, eseguono il loro numero, ecco che la cinepresa di Ray ne devia. Per scoprire un lampadario oscillante, i fulmini di una tempesta fuori, un insetto intrappolato in un bicchiere. Tutte esternalizzazioni dell’inquietudine altrimenti intangibile del protagonista, e foriere della catastrofe imminente: il naufragio dell’imbarcazione con moglie e figlio nella tempesta.
Simili risuonare insieme di casa e mondo, di uomo e natura, morte e vita, ricorrono nel cinema di Ray. Ed erano soprattutto questi armonizzarsi di oggettivo e soggettivo a suscitare l’ammirazione di André Bazin. A fare di Ray uno di quei cineasti «qu’il faut aimer» era la sua «capacité, au-delà de l’objectivité de l’image, d’épouser les modalités subjectives du langage» (Bazin 1957, p. 44). È la capacità, cioè, di «far passare in seconda linea le peripezie» del racconto, di deviare dalle sue azioni, «a vantaggio della sostanza psicologica» (Bazin 1957, p. 142). Che, volendo, è già un’enunciazione di quell’indiscernibile compenetrarsi di oggettività (il punto di vista della macchina da presa) e soggettività (lo stato d’animo del personaggio) – di casa e mondo –, lo sfumare della loro distinzione, di cui parlerà poi Pasolini, la soggettiva libera indiretta.
Ma è possibile che le ragioni della fascinazione di Bazin per Ray (e di altri europei, tra loro diversissimi: Aristarco, Lindsay Anderson, o René Clair, presidente della giuria veneziana che premia col Leone L’invitto) abbiano una radice più prettamente “orientale”. Le armonizzazioni di “casa” e “mondo” con tutto ciò che possono significare, cioè, presuppongano il retroterra culturale del suo Bengala. Lo stato del subcontinente più vivace intellettualmente, più incline a intrecciare casa e mondo, intuendo che l’apertura al secondo passa per il confronto, anche critico, con la prima. È la culla di un pensiero indiano che guarda a quello europeo per emanciparsi da certi rigidi arcaismi locali (il sistema castale, il ruolo subalterno della donna, il dogmatismo religioso), che matura orgogliosa consapevolezza della propria cultura, scartando dall’acritica appropriazione di quella allogena (europea e coloniale) senza per questo altrettanto acriticamente rigettarla. È lo stato che, già a metà ‘800, vede maturare fermenti indipendentisti, rivolte (Ray li racconta ne I giocatori di scacchi, 1977), o la formazione di un ceto intellettuale che si nutre di certo pensiero liberale o progressista europeo e vagheggia qualcosa come una possibile emancipazione dal dominio coloniale.
È lo stato di Tagore, figura centrale del suo rinnovamento culturale, riformatore ed esaltatore di pensiero e spiritualità indiana che – da occidentali – chiameremmo “panteista” per come ovunque rinviene il divino, la sacralità dell’esistente tutto, e li fa dialogare con la cultura europea. Se quello di Ray è il nome di punta della cinematografia indiana (e, anche, “apripista” dei vari Mrinal Sen, Ritwik Ghatak, Goutam Ghose), e che la rivela all’occidente, da una postura “realista” scevra da stucchevolezze esotiste, lo è quindi, paradossalmente, da una prospettiva “regionale” e cosmopolita a un tempo. Un cinema locale anche linguisticamente, perché parlato – salvo pochissime eccezioni – in bengali, la lingua di circa 150 milioni di parlanti per una nazione che conta più d’un miliardo di abitanti. Mentre gli eccessivi pot-pourris di Bollywood, che ancora registrano i maggiori consensi del pubblico in patria parlano e soprattutto cantano nel più diffuso hindi.
Ray, che nello stesso anno dell’indipendenza dell’India fonda il primo cineclub del suo paese, e che nel suo cinema declina l’indipendenza come fatto esistenziale più che schiettamente politico, che si innamora di Ladri di biciclette (De Sica, 1948), che frequenta Renoir sul suo set bengalese (Il fiume, 1951), e da indipendente, autodidatta, senza budget realizza il primo film, è ancora adesso uno di quei cineasti “che si devono amare”. E per le ragioni che a suo tempo evidenziava Bazin, così prossime a ciò che il cinema moderno tutto, internazionale, è stato (il primato del sentire sull’agire dei personaggi), e insieme intrise di una visione del mondo del suo paese. Il faut de l’aimer anche per come, a una contemporaneità impantanata tra rinati arcaismi ideologici, nazionalisti, intolleranze religiose (e ne sa qualcosa l’India contemporanea del presidente Modi), o, all’opposto, globalismi omologanti, livellanti, ancora dischiude una possibile armonia di casa e mondo. Il confronto con l’una e l’altro, l’idea di un’interdipendenza tra tutto ciò che a questo mondo è vivente.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Aparajito (L’Invincible), in “Cahiers du cinéma”, n. 75, 1957.
Id., L’invitto. L’opinione di Bazin, in “Cinema nuovo”, n.114-115, 1957.
E. Magrelli, a cura di, Il contrasto, il ritmo, l’armonia. Il cinema di Satyajit Ray, Di Giacomo, Roma 1985.
A. Robinson, Satyajit Ray: The Inner Eye, I.B. Tauris, London 2004.
Retrospettiva Satyajit Ray, Festa del cinema di Roma, 15 – 25 ottobre 2020.