La memoria cinefila di Monte Hellman è legata essenzialmente a due film: La sparatoria (The Shooting, 1966) e Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop, 1971). Il primo è noto come un western esistenzialista, ermetico, dall’intreccio reticente e pieno di misteri irrisolti, di taglio e stile da cinema d’autore europeo (Antonioni più che la Nouvelle Vague), che contraddice sorprendentemente la formazione di Hellman nella Factory di Roger Corman. Il secondo è un road movie post Easy Rider, all’epoca assai atteso (nel cast due star della musica, James Taylor e Dennis Wilson), e poi archiviato dalla Universal, come era prevedibile per un film ancora più europeizzante e antispettacolare; un film tutto giocato su silenzi, stasi, ellissi, nel proposito di rendere un vuoto esistenziale (visto dal basso, attenzione; i protagonisti sono racers, non intellettuali) che archivia l’esperienza dei Sixties, rifacendosi magari alle letture giovanili e alle esperienze teatrali di Hellman negli anni cinquanta: Camus e Beckett.
Due film anomali, nella produzione americana dell’epoca, con tratti fortemente intellettualistici quando non sperimentali, come mostrano i finali: in La sparatoria, la resa dei conti viene resa illeggibile da ralenti ed ellissi, e non si capisce chi muore e come; in Strada a doppia corsia brucia la pellicola, come era già successo in un altro film su un pilota sui generis, Il vergine (Le Départ, 1967) di Jerzy Skolimowski. Eppure due film inseriti in tradizioni precise, che presuppongono generi vecchi e nuovi, per altro bellamente azzerati.
Il flop al box office di Strada a doppia corsia non aiuta il posizionamento di Hellman all’interno di Hollywood: le regie si diradano, gli interventi e le manipolazioni dei produttori si fanno sempre più ingombranti: da Cockfighter (1974, prodotto da Corman) ad Amore piombo e furore (China 9, Liberty 37, 1978), coprodotto da Valerio de Paolis – che tra le altre cose arriva ad accreditare la regia all’aiuto regista Antonio Brandt, per fare sembrare il film una produzione maggioritaria italiana e godere dei benefici fiscali del caso. Due film, questa volta, che nascono con evidenti intenzioni di exploitation (Amore piombo e furore viene venduto come un western erotico, in un momento in cui il genere declina, e di fatto Jenny Agutter si spoglia appena può), e che Hellman ancora una volta sabota: non si capisce se per malizia situazionista, autolesionismo o inadeguatezza.
Eppure Hellman sbarca il lunario salvando e rimontando produzioni commerciali, e dirigendo impegnative seconda unità; e se Peckinpah lo chiama per sistemare Killer Elite (1975), e Monte gira uncredited molte più scene di RoboCop (1987) di quanto Paul Verhoeven sia disposto ad ammettere, un motivo ci sarà. Ma vedendo e rivedendo i suoi film (oggi, on line, si trova da scaricare quasi tutto – segno comunque di un culto e interesse persistente), il dubbio viene lo stesso.
Rivedo allora la sequenza della rapina di Le colline blu (Ride in the Whirlwind, 1967) leggendo il commento di Quentin Tarantino:
Il film inizia con l’assalto a una diligenza che sortisce un effetto ridicolo per via della pigrizia e dell’attitudine laconica dei rapinatori. È esattamente l’opposto delle scene concitate cui siamo stati abituati (mi fa immancabilmente ridere la lentezza con cui un rapinatore allontana un tronco dalla traiettoria della diligenza) (Tarantino in Fadda 2009).
È un modo molto gentile per dire che la sequenza sembra girata da Demofilo Fidani o da Tanio Boccia. Attori imbambolati e fermi sul posto, macchina da pressa fissa. Non uno straccio di musica di commento fino alla fine. Facciamo finta di non sapere chi sia Monte Hellman. Ci chiediamo: l’ha fatto apposta, questo regista? Non sa girare? O intendeva proprio sabotare i tempi del western? L’operazione è rischiosa, come è rischiosa l’operazione di legittimazione critica – ogni volta che il critico usa l’avverbio “volutamente”, l’argomentazione ha i piedi d’argilla.
Allora rivedo la scena di Amore piombo e furore in cui Jenny Agutter ha confessato il tradimento a Warren Oates, lui la picchia, lei gli pianta un coltello tra le scapole. Macchina da presa frontale, campo lungo, tempi fin troppo realistici, un’aria vagamente teatrale: quanto di meno cinematografico si potrebbe immaginare. Ma, al momento dell’azione, il découpage si velocizza all’improvviso, come da manuale del montatore. Hellman sa evidentemente quello che fa e sa che cosa vuole. Solo che, probabilmente, è sempre il regista sbagliato al posto sbagliato. Da cui la facilità, da parte della critica, di costruirne la mitologia, di lanciarsi in esegesi spericolate di film a volte minori o minimi (probabilmente non lo è Iguana, 1988, sicuramente lo è Silent Night, Deadly Night III: Better Watch Out!, 1989), affascinata da un’autorialità sbilenca e nomade, forse più interessante sulla carta che all’atto (e al piacere) della visione.
È facile, fin troppo, scrivere su Hellman: vedo adesso, per la prima volta, Flight to Fury (1964). Sembra una versione cheap di La selva dei dannati (La mort en ce jardin, 1956) di Luis Buñuel. Ma alla fine – non so se l’abbia notato qualcun altro – c’è un sorprendente duello che rende omaggio alla teoria baziniana del montaggio proibito (i due antagonisti che si sparano nella stessa inquadratura); un duello che anticipa gli antiduelli finali di La sparatoria e di Amore piombo e furore – tutti diversi, tutti memorabili –, e che finisce in modo imprevedibile. Ma è un bel film, Flight to Fury – o anche solo un film interessante, un film con un suo posticino nella storia del cinema? Importa qualcosa?
Nell’ultimo spicchio della carriera di Hellman, la sua assenza dalla regia e le sue traversie produttive assumono proporzioni wellesiane o malickiane. L’elenco dei film che quasi dirige o che sogna di dirigere, di quelli che salva e di quelli da cui viene cacciato (perché capita anche questo), riempirebbe un libro intero. Hellman adocchia la sceneggiatura di Le iene (Reservoir Dogs, 1992), ma poi Tarantino decide di assumerne la regia, e lui rimane come produttore esecutivo. Poi Tarantino dovrebbe produrgli Red Rain, un film carcerario con Willem Dafoe, ma non se ne fa niente. Per esempio.
Il digiuno viene infranto nel 2006 da Stanley’s Girlfriend, episodio quasi horror di Trapped Ashes, che denota solo l’ossessione di Hellman per un regista, Kubrick, su cui ha detto cose strampalate (“He didn’t know how to move actors. He made interesting films because he had an interesting mind, but he didn’t direct interestingly”); e da un lungometraggio, Road to Nowhere, visto al Festival di Venezia nel 2010. E dove, malgrado un uso accorto del digitale low budget, l’impianto di cinema nel cinema, verità e finzione, sembra, a dirla tutta, un po’ anacronistico e obsoleto: senza scomodare Orson Welles, basterebbe risalire a un film caro a Tarantino e che Hellman sicuramente vide a Los Angeles nel 1969: I Am Curious (Yellow), 1967, di Vilgot Sjöman.
Dell’ultimo film di Hellman rimangono impressi soprattutto l’aereo che si sfracella nel lago – una scena ancora una volta baziniana, che farebbe sobbalzare chiunque; e il finale con l’avvicinamento/ingrandimento della fotografia di Shannyn Sossamon appesa a una parete: ennesimo omaggio a Wavelenght (1967) di Michael Snow, dopo Shining (1980) di Kubrick e Omicidio in diretta (Snake Eyes, 1998) di Brian De Palma, ma drammaturgicamente opaco come quest’ultimo. Hellman: lampi in una carriera dispersa, dispersi nei film sbagliati (o in film sbagliati tourt court). Non un altro autore. Un autore in meno.
Riferimenti bibliografici
M. Fadda, a cura di, American Stranger. Il cinema di Monte Hellman, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna 2009 (contiene Q. Tarantino, Un insolito dolore, originariamente apparso su “Sight and Sound”, 2, 1993).
B. Stevens, Monte Hellman. His Life and Films, MacFarland, Jefferson-London 2003.
Monte Hellman, New York, 12 luglio 1929 – Palm Desert, 20 aprile 2021.