Perché dipingersi il volto di blu?

di SERGIO BENVENUTO

Il cinema di Jean-Luc Godard / parte I.

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Il bandito delle 11 (Godard, 1965)

Perché piace Godard

«Tutto quello che serve per fare un film sono una pistola e una donna» (Godard, Annotazione, 16 maggio 1991). Appartengo a quello spicchio della generazione baby boomers che Jean-Luc Godard chiamò «i figli di Marx e della coca-cola» (Masculin Féminin). Sono stupito dal persistere dell’amore di tanti giovani per Godard. Studente a Parigi dal 1967 al 1973, sono cresciuto pascendomi di mense universitarie, di corsi di Lacan Barthes e Foucault, e di Nouvelle Vague. Ma, al contrario di tanti altri vecchi, i quali pensano che certezze e passioni della loro gioventù siano eterni, do sempre per scontato che gran parte di quel che pensavo e amavo in gioventù non abbia più corso oggi. Quando vedo che certi giovani dell’élite dicono più o meno le stesse sciocchezze che dicevo io a vent’anni, e sono inteneriti da cose che intenerivano me all’epoca, resto perplesso.

Attorno al 1968 la passione per Godard era molto legata alla variabile anagrafica. Si doveva essere sotto i 30 anni per apprezzarlo. Alberto Moravia, nato nel 1907, era alquanto tiepido nei confronti di Jean-Luc, anche se questi aveva tratto un film da un suo romanzo, Il disprezzo. Bernardo Bertolucci, nato nel 1940, invece lo ammirava. Per noi giovani Godard era il Picasso o magari il Duchamp del cinema. Così per alcuni anni molti giovani registi si misero a scimmiottare Godard a tutto spiano. Il godardismo divenne maniera.

Derive di Godard

Spesso leggo che dopo A bout de souffle non si è potuto continuare a fare film come prima. È vero questo? Non considero qui il cinema ”arte contemporanea”, i film d’élite proiettati in club speciali dove l’influenza di Godard resta palese. Considero il cinema che si vede nei normali circuiti di massa.

Il tipo di cinema “americano” che oggi fanno anche i registi più sofisticati sembra avere ben poco a che fare con Godard (scriverò qui “americano” tra virgolette, per riferirmi a film non necessariamente prodotti in USA, ma nel tracciato dell’estetica cinematografica dominante.) A partire dagli anni ’80 si è imposto quello che chiamerei turborealismo espressionista. Qui lo spettatore sente di essere parte delle scene a cui assiste, come se stesse tra i personaggi, nel mezzo di una “realtà scadente” come fa dire Sorrentino a Fellini, ruvida, grezza, spesso sporca. Tutto questo con un montaggio estremamente veloce. Questo tipo di cinema ci fa apparire quello classico una sorta di teatro filmato al rallentatore, gli attori di allora sembrano muoversi sullo sfondo di scenografie laccate. Oggi il cinema tende a coinvolgerci al massimo, non a distanziarci come voleva Godard. Direi che siamo in una fase caravaggesca e rembrandtiana del cinema, siamo nel XVII secolo del cinema.

Si dice che dopo Les demoiselles d’Avignon e il cubismo non si è potuto più dipingere come prima. Eppure oggi nessuno dipinge quadri cubisti, anzi oggi non dipinge quasi più nessuno. Insomma, Picasso ci appare molto lontano. Eppure quella stagione Picasso segna tuttora uno spartiacque perché sentiamo che, da allora, l’arte ha cominciato a pensarsi diversamente. Analogamente, con Godard sentivamo che si poteva pensare il cinema altrimenti, ma non è affatto detto che questo altro cinema sia godardiano. Quindi A bout de souffle è paragonabile alle Demoiselles d’Avignon. Picasso e Godard non possono fare scuola a lungo, sono eventi. Non tutto però delle invenzioni godardiane è andato perduto, dato che molti dei registi oggi considerati “the best” le usano in un contesto diverso. Le si coglie in Amos Gitai, nei fratelli Cohen, Jim Jarmusch, Vincent Gallo, Steven Soderbergh, Wong Kar-wai, Leos Carax, Martin Scorsese.

Vicini allo spirito di Godard − una concezione del tutto artificiosa del cinema − mi sembrano Quentin Tarantino e Lars von Trier. Tarantino ha sempre dichiarato il suo amore per Godard, soprattutto per Vivre sa vie e Bande à part. Non a caso ha dato nome alla sua casa di produzione A Band Apart. Cosa che Godard non apprezzò. Tarantino è riuscito a prendere i due piccioni fondamentali con una fava: piacere al pubblico di massa ma anche alle élite cinefile. Impressiona l’assoluta inverosimiglianza dei suoi film, che rompono ogni ormeggio con la realtà storica, e politicamente corretti fino all’assurdo. Per esempio, in Inglorious Basterds alla fine Hitler viene ucciso da ebrei, assieme a tutto l’establishment nazista, in un cinema parigino mentre assistono a un film… Ci mostra la storia come avremmo desiderato che andasse. Tarantino ci ripete in modo sardonico: «Il cinema è solo una macchina per divertire la gente. Punto».

Von Trier, come Godard, usa i capitoli titolati nei film, capitoli equivalenti ai cartelli che Brecht faceva calare giù dal soffitto sul palcoscenico. Analogamente, Dogville, la malvagia cittadina americana del film omonimo, muta di cani paradigma di ogni comunità, non è fatta di muri ma le case sono tracciati sul terreno, nulla è invisibile all’interno delle abitazioni. Dogville non è rappresentata ma significata. Cercherò di separare i vari tratti che costituiscono il sistema Godard. Mi occuperò di: Parodia; Verfremdungseffekt; Sgrammaticature; Cinema povero; Belle donne; Sproloqui; Digressioni; Noia e rituale.

Parodia del cinema popolare

Negli anni ’70 un mio amico parigino mi disse: “Dopo tutto, il cinema europeo di qualità è solo una riflessione sul cinema americano”. Perché il vero cinema era quello americano, ci era chiaro all’epoca. Il cinema è prima di tutto industria del divertimento, come Disneyland. Già con Méliès, veniva fatto per divertire le masse. A noi europei restava una pensosa parodia di Hollywood. Operazione esplicita in Le Mépris: un film su come viene costruito un film storico-mitologico americano. Non so se la battuta del mio amico valga per tutto il cinema europeo, vale certamente per Godard. I film del Godard che si ama – quello degli anni ’60 – si volevano una caricatura filosofica del cinema “americano”. Quando si pensa al cinema “americano”, a parte il western, si pensa a un cinema di gangster e mignotte. E il miglior cinema di Godard è di gangster e mignotte.

A bout de souffle riprende il tema di Humphrey Bogart hunted man. Bande à part fa il verso ai film su una rapina che finisce male. Mission Alphaville rifà un film di fantascienza distopica, mentre il breve Un nouveau monde [in Ro.Go.Pa.G., 1963] fa il verso all’Invasione degli ultra-corpi di Don Siegel. Les carabiniers imita un film di guerra. Pierrot le Fou è preso da un romanzo noir americano, Obsession di Lionel White. Made in U.S.A., lo dice il titolo stesso, è un pastiche di film americani, evoca The Big Sleep di Hawks. Godard ci piaceva perché il suo era un cinema di riflessione e di riflesso, nel senso che era una riflessione sul cinema e rifletteva altro cinema. E questo non solo perché nei suoi film spesso vediamo personaggi che guardano altri film (famosa la sequenza della puttana Nana che lacrima guardando La Passion de Jeanne d’Arc di Dreyer). Lui stesso disse che non gli interessava raccontare storie, bensì usare il cinema per riflettere.

Ci sembrava che con Godard, ancor più che con altri registi della Nouvelle Vague che pure ci piacevano (Truffaut, Varda, Rohmer), il cinema cessasse finalmente di essere un’arte minore, divertimento per le folle, che si potesse finalmente permettere un’”avanguardia” modernista, come era accaduto per arti e letteratura. Il paragone più ovvio è con Andy Warhol, anche se nessuno ha mai etichettato Godard “cineasta pop”. Warhol rappresenta prodotti banali dell’industria di massa come un tempo si rappresentavano Madonne, santi e angeli: con uno stile elegante e direi classicheggiante. Analogamente Godard in Une femme mariée ci mostra un banale triangolo borghese – una donna divisa tra il marito e l’amante, e che una volta incinta non sa di chi sia il figlio – in una raffinata sinfonia di bianchi e di neri. Da una parte la protagonista vive immersa nel mondo delle riviste di moda, delle piscine e dei prodotti di bellezza, dall’altra tutto questo è mostrato in una magnifica fotografia dei corpi nudi che si stagliano sul bianco brillante delle lenzuola.

Ma che cosa intendevamo – e che cosa intendiamo oggi – per arte modernista o d’avanguardia, e che chiamerei, sulla scia di José Ortega y Gasset, arte impopolare? All’epoca l’estetica dell’arte impopolare fu teorizzata con rigore da Barthes, Sontag, Eco… Erano gli anni ruggenti dello strutturalismo, non solo in Francia, e a tutti noi era chiaro che l’arte si dovesse finalmente volgere al significante. L’arte, quindi anche il cinema, doveva smettere di essere pura rappresentazione narrativa del mondo, non doveva farsi dimenticare in ciò che rappresentava e narrava, ma volgerci al significante, ovvero all’arte stessa. Insomma, l’arte doveva diventare arte dell’arte, “iconoclasta” come dirà il presidente Macron nel necrologio di Godard. Per “del” intendo “su, intorno a”, arte sull’arte; ma “del” anche nel senso che l’arte stessa si smaschera, arte in cui lo spettatore, lungi dall’essere un fruitore di rappresentazioni, assume gli occhi e gli orecchi dell’artista. Godard non ci faceva mai dimenticare che un film è cinema, solo cinema. Egli amava pochi film, moltissimo il cinema. Godard stesso disse che i suoi film degli anni ’60 non avevano altro soggetto «che il cinema stesso e il suo modo di trattare le cose» (Godard 2007).

Godard ci toccava perché filmava sempre spudoratamente il suo amore per il cinema. Questo concentrarsi sul significante non va a dispetto del fatto che Godard abbia detto «il cinema è verità 24 volte al secondo» (Le petit soldat). Si metteva sulla scia del cinéma-vérité (Edgar Morin, Jean Rouch), ovvero del tentativo di documentare le realtà senza filtri cosmetici, filmando con una macchina da presa leggera in modo da rivelare la verità dietro la realtà. Il suo modello era L’uomo con la macchina da presa (Vertov, 1929) di Dziga Vertov, cinema-verità dell’epoca staliniana. Ciò sembra stridere con la teatralità dei film di Godard, che lui riprendeva da Sacha Guitry.

Questo è il punto: la scommessa dell’arte impopolare è che, proprio spostando l’attenzione sul significante, è possibile cogliere qualcosa di reale. Il cinema non deve farci interessare a Ferdinand Griffon, ma al ben reale Jean-Paul Belmondo che lo recita in Pierrot le fou… Il punto è che il mondo reale non ha più nulla di vero: è un mondo-spettacolo, infarcito di segni. Occorreva smascherare la forma artificiosa della natura.

Verfremdungseffekt, effetto di straniamento

Godard aveva preso alla lettera la doppia lista di tratti che per Brecht separano il “teatro drammatico” dal “teatro epico” – qui diremmo, il “cinema americano” dal “cinema impopolare”. Brecht, negli anni ’60, era il nostro deus estetico. E Roland Barthes era il suo profeta. Oggi Brecht è rappresentato di rado, all’epoca i teatri rigurgitavano di Brecht. Godard cercava un cinema epico producendo distanciation grazie a una recitazione del tutto anti-naturalistica. I suoi attori non recitano veramente, citano. Questa svolta anti-naturalistica della recitazione aveva avuto i suoi precedenti francesi, ad esempio nel modo di recitare degli attori di Robert Bresson. Nei film di Godard gli attori leggono testi, che ci appaiono del tutto sconnessi dalla narrazione del film. In Une femme mariée alla fine i due amanti si lasciano recitando la Bérénice di Racine.

Godard rinuncia a una rappresentazione drammatica del mondo, per cui atti ed eventi sono significati più che rappresentati. Un esempio. In Les carabiniers i due protagonisti sono soldati che in guerra commettono ogni genere di crimini. Tra questi c’è ovviamente lo stupro. Ma quando si trovano di fronte a una donna inerme, si limitano ad alzarle un po’ da dietro la gonna con la punta del fucile. In un’altra scena il soldato fa spogliare la donna che resta in sottoveste, ci si aspetta una scena truculenta di sesso, e invece il soldato mette la donna a quattro zampe e la cavalca come un cavalluccio… Una scena potenzialmente terribile si risolve in una gag. Insomma, Godard evita accuratamente di angosciarci, appassionarci, commuoverci, egli punta soprattutto a farci ridere. In particolare, a farci ridere del proprio stesso cinema. Non a caso i suoi film preferiti erano quelli di comici americani, i Marx Brothers, Jerry Lewis. A proposito di quest’ultimo, gli americani colti pensavano che i suoi fossero film per bambini o per adulti ritardati mentali, mentre Godard li apprezzava come esempio rarissimo di cinema naif, e per questo anche a noi piaceva il Doganiere Lewis.

Così Godard ci faceva gustare anche i film “americani”, così coinvolgenti, in modo ironico. Li guardavamo di sghimbescio. Godevamo della serie dell’agente 007 o dei western di Sergio Leone come fossero film di Godard, apprezzando le astuzie dell’artificio cinematografico. È il paradosso della Nouvelle Vague: ci ha fatto amare il grande cinema popolare, pur conservando uno sguardo da produttore e non da consumatore di cinema. Chi amava Godard sognava di divenire regista a sua volta. Prima, non solo in Europa, prevaleva un’austerità critica per lo più di sinistra che separava radicalmente il “cinema commerciale” dal cinéma d’essai, cinema d’autore, sulla scia dell’estetica lukacsiana. Accadde così che quando Truffaut nel 1962 si recò in America per conversare con Hitchcock, gli autorevoli critici americani si stupirono ch’egli si interessasse a un regista che sfornava film per fare tanti soldi seducendo le plebi. Sappiamo invece, oggi, di quale immenso prestigio cinefilo goda un film come Vertigo, tra altri di Hitchcock. Ma questo ribaltamento di giudizio fu opera soprattutto della Nouvelle Vague e del suo organo, Cahiers du cinéma. Perché la critica si interessa sempre meno ai significati dei film e sempre più alla tecnica di costruzione dei film.

In Due o tre cose che so di lei all’inizio del film l’attrice protagonista, Marina Vlady, è presentata due volte in modo quasi identico: come Vlady e poi come il suo personaggio. Talvolta ci si chiede, nel corso del film, se stia recitando l’attrice o il suo personaggio. Questo scollamento tra attore e personaggio ci rende complici di un’ars poetica. Di norma distinguiamo rigorosamente tra l’opera e il suo senso – politico, estetico, filosofico, psicologico… − che verrebbe scritto dal critico o dallo storico del cinema. Godard invece fa la critica del proprio film nel corso del film stesso. Non a caso molti cineasti Nouvelle Vague cominciarono la loro carriera come critici in Cahiers du cinéma. Dalla critica dei film si passa a film che fanno la critica del cinema.

In ogni film Godard vuol darci un “messaggio forte”, un molto senso che cozza con il poco senso, l’assurdo, della narrazione stessa. Ci ammannisce il messaggio con lunghi sproloqui. È come se tra la solidità del significante e lo stato gassoso del senso, egli saltasse lo stato liquido tipico del cinema “americano”, un salto che in chimica si chiama sublimazione. La sublimità di Godard è in questo: la noia del messaggio esistenziale o politico del film si staglia sullo sfondo effervescente di immagini e azioni insensate. Questa inclusione del “messaggio” del film nel film stesso sarà usata, tra gli altri, anche da Pasolini, in particolare in Uccellacci e uccellini e in Teorema. In quegli anni il cinema tendeva alla saggistica.

Allora ci fu anche il rilancio del «teatro della crudeltà» di Antonin Artaud, vale a dire un teatro opposto all’epica brechtiana: spettacoli di profondo coinvolgimento carnale e di sensazioni al limite, anche di tipo mistico. Come facevamo ad apprezzare allo stesso tempo la ratio brechtiana e i Misteri artaudiani? In effetti, un’epoca culturale non è mai solo una certa cosa, è sé stessa e la contraddizione di sé stessa. L’arte ci seduce quando sembra accordare le contraddizioni che dilaniano un’epoca. E la nostra epoca vuole essere allo stesso tempo razionalista e dionisiaca.

Cinema povero

Godard fa ricorso a modi di filmare già ampiamente sfruttati dal neorealismo italiano: rifiuta i teatri di posa e filma per strada, fa recitare a partire da un canovaccio come nella Commedia dell’Arte. Non usa luci di scena, gira praticamente senza sceneggiatura. È un cinema quasi sciatto, all’epoca si sarebbe detto povero. Negli anni ’60 e ’70 il termine povero ci catturava. Andava per la maggiore il teatro povero (Grotowski, Barba, Living Theatre, Open Theatre, Brook…). In Italia sorse allora il movimento dell’arte povera di Germano Celant. Povera non nel senso del neorealismo, il quale rappresentava, e così celebrava, un mondo umile e misero. Ora la povertà non era più quella del referente – si diceva allora in termini semiotici – era la povertà dell’artista e dei suoi mezzi. L’artista, divenuto straccione, esaltava la povertà dei propri materiali. Anzi, spesso l’arte povera rappresentava sarcasticamente figure “alte”, classiche.

L’artista presenta le sue opere come bricolage, frutto della sua arte d’arrangiarsi. In effetti la preferenza per l’aggettivo “povero” era già un gesto polemico contro una cultura che si voleva opulenta per tutti, contro film “americani” che facevano sfoggio di quanto fossero costati. Quello di Godard si presenta come un cinema da rigattiere, non da ingegnere. Così la Parigi che Godard ci presenta non sfavilla, è spesso misera, invernale, fatiscente… Vediamo soprattutto cantieri edilizi e casermoni popolari. Le tante scene di bistrot nei suoi film sono girate con la luce reale, i dialoghi nel café appaiono improvvisati, goffi, come sono improvvisate le reali conversazioni da caffè. Gli uomini accendono spesso sigarette. Godard cercava l’equivalente cinematografico del free jazz, di una musica estemporanea, senza partitura, non orchestrale. Una delle arti più costruite, il cinema, ora sfruttava il caso, lasciava sgocciolare immagini come in un quadro di Pollock. Era l’inverso del cinema di un altro regista che pure adoravamo, Stanley Kubrik. Il suo cinema è invece il più riccamente costruito che si possa immaginare. In 2001: Space Odissey Kubrik ci fa abitare in un universo da lui costruito ex novo di sana pianta.

Continua…

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Un commento

  1. Molto interessante. Una sintesi completa e approfondita su Godard, sul suo e sul nostro tempo. Non poteva darsi necrologio migliore

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