Orso d’argento all’ultima Berlinale, presentato in anteprima italiana al 41esimo Torino Film Festival, veniamo cullati dentro ll cielo brucia di Christian Petzold da In my mind dei Wallners. In my mind / In my mind / Love gonna make us, gonna make us blind. Musica sospesa e sognante di contro allo schermo che ci allarma illuminandosi di rosso sangue.

Leon e Felix, uno scrittore e un artista, in viaggio in macchina – che è uno dei punctum politici del cinema di Petzold e del suo maestro Hartmut Bitomsky, che affermava che “non appena la classe operaia entra in possesso di un’automobile non può più lottare per i propri diritti” – verso la casa al mare del secondo. Felix lamenta dei problemi al veicolo, ma Leon dice di non sentire niente e riprende a sonnecchiare. Stacco di montaggio e la macchina è ferma a bordo strada, non parte più. La cecità di Leon ha già iniziato a delinearne la deriva ondivaga tra quattro luoghi: una casa al mare, una spiaggia, una foresta, un reparto ospedaliero. All’incrocio delle sue traiettorie annoiate, uno schema geometrico rohmeriano: Leon vede lei che bacia lui, che bacia lui, ecc. Lei è Nadja, lavoratrice stagionale a cui la zia di Felix ha concesso ospitalità nella villa al mare. Lui è Devid, bagnino della spiaggia che passa le notti con la ragazza. L’altro lui sarà poi proprio Felix. E Leon? Leon “vede” soltanto, perché “deve lavorare”. Un ritornello con cui l’aspirante scrittore si allontana dal mondo con la scusa del processo di scrittura, della ricerca intellettuale e che diventa la linea comica più dissacrante del film. Leon assume una scomposta posa d’artista per osservare l’orizzonte e così tenerlo a distanza. Continuare a non sentire nulla, mentre attorno il mondo brucia.

La genesi del film è una febbre, racconta Petzold. Chiuso in casa ai primi mesi dell’epidemia Covid, stordito dalla malattia, il regista tedesco si abbandonò a una collection di film di Eric Rohmer. Da questo rewatch febbricitante emerse una speculazione cinefila: nel panorama del cinema tedesco non esiste il genere dei summer movie. Le vacanze, le spiagge, luoghi sospesi come il tempo di una giornata estiva rosolata tra l’alba e il tramonto. I corpi svestiti, unti di crema, bagnati di acqua salmastra. Il momento per leggere, per amare, per vivere. Storie d’amore passeggere come il distendersi e il ritrarsi a tappeto delle onde. Il cielo brucia è nato da questa necessità cinematografica, all’apparenza innocua. Ma Petzold ha sempre giocato a travestire il suo cinema di leggerezza, flirtando con i generi cinematografici.

A partire dal suo esordio di diploma alla scuola di cinema, Pilotinnen, come nei primi film televisivi, lo spietato ritratto di una società consegnata alle abitudini e alle nevrosi del mondo globalizzato e capitalistico, lo skyline della new economy, s’insinua con una rara sapienza narratologica in storie di criminali, di ladri, nei dialoghi tra un uomo abbottonato nel suo completo elegante e la donna che quella notte lo fregherà. Un cinema, quello di Petzold, che è segnato sul nascere da un profondo e lucido movente politico che lo porta a firmare numerose sceneggiature con Harun Farocki, suo docente al DFFB, cineasta politico e figura di prima linea della ricerca audiovisiva d’avanguardia. Ma il concetto, il tema, in questi film rimane un sottofondo che permea con grande naturalezza un mondo cinematografico plasmato sugli stilemi del noir, del melodramma (Die Beischlafdiebin – The Sex Thief), del revenge movie (Toter Mann – Something To Remind Me) e del film di fantasmi (Yella). Cinema, perché no, di consumo, che va incontro al pubblico.

In Il cielo brucia l’occasione del summer movie si coniuga sull’emergenza ecologica e le consapevolezze dell’Occidente. In my mind. Leon che guarda ma non vede è il ritratto di un mondo politico e culturale autofago, soddisfatto di sé e impegnato a perseguire il proprio percorso storico senza guardarsi attorno. In my mind. Guarda l’altro da sé attraverso dei frames, come Leon che segue la figura enigmatica di Nadja attraverso le finestre della casa, conservandone l’irraggiungibile mistero solo perché non fa nulla per svelarlo, non muove mai un passo verso di lei. Love gonna make us, gonna make us blind. Solo lo scoglio ineluttabile della morte, che giunge improvvisa quanto prevedibile a rompere il ritornello (perché la minaccia del fuoco è sempre lì, dall’inizio del film), può salvarlo da sé stesso e inscriverlo nell’orizzonte dell’emergenza. We’ll living in a place we like. Leon adesso ha davvero qualcosa su cui lavorare, ha qualcosa che deve riscrivere per riconoscersi e riconoscere l’altro e con l’altro il futuro, in un campo-controcampo finale che è imprendibile e al tempo stesso cruciale. What’s gonna make us, gonna make us find?

Infine (o all’inizio), sta a noi rileggere queste immagini nella nostra memoria, collocarle e dialogare con loro nell’orizzonte del mediale espanso come un buco nero. Perché in un presente sempre più appiattito sull’istante e sull’attualità, è in un autore maiuscolo come Christian Petzold che il cinema riconosce il futuro. Non nell’assertività di chi istruisce sul bene e il male, ma nella sospensione di chi attraverso uno scambio di sguardi tra personaggi plasma una scultura astratta che è una forma di pensiero, una materia visiva che è teoria attorno al vuoto. È la pedagogia impossibile del cinema che cambia il mondo con le domande che si pone lo spettatore una volta uscito dalla sala. Ma a volte capita che in our mind questo love per le immagini che make us blind ci permetta anche di ritrovarci nei nostri spettri e così imparare da loro ad aprire questi occhi così spesso wide shut.

Il cielo brucia. Regia: Christian Petzold; sceneggiatura: Christian Petzold;  fotografia: Hans Fromm; montaggio: Bettina Böhler; interpreti: Thomas Schubert, Paula Beer, Enno Trebs, Langston Uibel, Matthias Brandt; produttore: Schramm Film Koerner & Weber, ZDF; distribuzione: Wanted; origine: Germania; durata: 102′; anno: 2023.

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