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In un saggio del 1989, Franco Fortini notava che il rapporto tra il testo letterario e il contesto storico-sociale non può essere ridotto alla rigida relazione tra un dentro e un fuori. Le relazioni dialettiche sono molto più profonde, coinvolgono tracce e traiettorie persino invisibili. Ascoltiamo direttamente la sua voce: “in ogni vera poesia e in ogni grande narrazione sono contenuti elementi che a partire dalla forma verbale del testo mirano a toccare o implicare ambiti extratestuali diversi da quelli che hanno concorso alla sua nascita” (p. 1643). E questa pratica interpretativa presuppone non solo uno sguardo lungo, e necessariamente interdisciplinare, ma uno sguardo anzitutto distante. L’oggetto dell’analisi – che è un oggetto mobile, perché si configura come esito di un rapporto e di una relazione – è allora complesso: è assimilabile a una sorta di “depositum historiae” (p. 1651), di sedimentazione storico-materiale che si rende a tratti presente nel testo, nei modi espressivi più vari. Fredric Jameson, alle cui indagini neomarxiste il critico e poeta toscano allude, chiama inconscio politico questo contenitore ideologico sommerso, una sorta di althusseriana “causa assente” che struttura a livello ideologico il testo letterario. Fortini preferisce parlare di stratificazioni, di nessi nascosti, di rapporti storico-materiali che presiedono alla significazione.

La letteratura vista da lontano è il titolo di un noto libro di Franco Moretti, uno dei teorici della letteratura più influenti del nostro tempo. L’idea, che Moretti articola da sempre nei suoi contributi, può dirsi affine agli intenti fortiniani: studiare le forme letterarie e culturali nella loro corrispondenza con la realtà di classe, indagando le differenti modalità in cui l’espressione letteraria si relaziona a una struttura materiale di potere, ne partecipa attivamente o passivamente, contribuisce o meno a rinvigorirne l’immaginario o ne contesta, al modo di una dissonanza adorniana, le ragioni. Ne è una conferma Il borghese. Tra storia e letteratura, pubblicato in inglese nel 2013 e ora disponibile in un’accurata traduzione italiana per i tipi di Einaudi. L’intento è dichiarato da Moretti nelle pagine introduttive: “guardare al borghese […] e alla sua cultura come elementi di una struttura di potere con la quale, tuttavia, non coincide del tutto” (p. 4), e sondare questa mancata identità, le sue differenti articolazioni, i suoi nessi nascosti, nel patrimonio letterario a disposizione, servendosi di una metodologia che spazia dalla critica stilistica all’indagine storica, dalla genealogia delle forme alla filologia informatica.

È interessante rilevare un primo scarto rispetto a quella che potrebbe, di primo acchito, apparire un’analisi tradizionalmente ideologica dei rapporti tra letteratura e classi sociali. Moretti ha un modo di procedere dialettico, sempre pronto a problematizzare le questioni e ad aggirare qualsivoglia rigidità metodologica (e in ciò risiede anche l’affabilità della sua prosa saggistica). Le forme letterarie non sono semplicemente – come voleva Althusser – una risposta dell’immaginario a contraddizioni reali, dal momento che la formulazione di una risposta implica una certa strategia di uniformazione (anche retorico-persuasiva) che inevitabilmente lascia sullo sfondo altre possibili sollecitazioni. In tal senso, il testo letterario, seppure latore di una contraddittorietà rispetto all’esistente, sarebbe un organismo chiuso, una macchina ideologica a tesi. L’assunto, sostiene Moretti nel suo studio, va in qualche modo rivisto dialetticamente:

La letteratura è quello strano universo in cui tutte le soluzioni si conservano alla perfezione – sono molto semplicemente i testi che leggiamo ancora oggi –, mentre le dissonanze sono silenziosamente scomparse alla vista: quanto più profonda è stata la loro soluzione tanto più si è rivelata efficace (p. 13).

La storia del borghese come figura-chiave del capitalismo, che invade simbolicamente i romanzi del tempo, ci dice che le dissonanze riaffiorano al modo di decisive sopravvivenze. Qui il rovesciamento metodologico inscenato da Moretti, che sta alla base del suo procedere analitico:

Se accettiamo che la forma letteraria è come il fossile di ciò che un tempo era un presente vivo e problematico, e se procediamo a ritroso in una sorta di ‘ingegneria inversa’ per comprendere il problema di cui era la chiave di soluzione, allora l’analisi formale può fare luce – in teoria, se non sempre in pratica – su una dimensione del passato che resterebbe altrimenti nascosta (ibidem).

La rabdomanzia cui il critico si sottopone non è però d’ordine strettamente ideologico – tesa cioè a ragionare, per usare un termine psicoanalitico, sulle formazioni di compromesso che si realizzano a livello concettuale e poi formale (Jameson parla, a tal proposito, di “ideologemi”) –, quanto d’ordine più strettamente linguistico. Il borghese è anzitutto uno studio sull’emersione e sulla sedimentazione di certe parole nella prosa, e sul significato da attribuire a tali presenze – un significato che ovviamente trascina la letteratura, con una raffinatezza teorica davvero avvincente, su un terreno squisitamente storico (sul quale Moretti si muove chiamando in causa i grandi modelli sociologici e storiografici della tradizione: Marx, Weber, Kocka, Koselleck, ma anche Raymond Williams, Immanuel Wallerstein e il nostro Gramsci). E allora, partendo dall’immancabile Defoe sino ad arrivare a Ibsen, l’analisi di Moretti si sofferma sul rapporto tra la prosa e le parole-chiave, sia sostantivi che aggettivi (questi ultimi più interessanti perché adattabili alle esigenze del momento): “utile”, “efficienza”, “comfort”, “serio”, e via dicendo. Dalla cui considerazione emerge una traiettoria concettuale d’ordine storico che ha un obiettivo anche e soprattutto politico, legato alla critica dell’esistente: dimostrare l’evaporazione di una figura nel momento in cui, al contrario, il capitalismo si pone come esperienza totalizzante.

In tal senso, l’analisi, che non si spinge oltre un certo cerchio storico, ma che talvolta rimanda alle esperienze novecentesche, sembra porsi come una sorta di indispensabile premessa al ragionamento sulla crisi dell’individuo che soprattutto Adorno – ma anche il Thomas Mann sovente chiamato in causa da Moretti – svolge simultaneamente alla critica dell’industria culturale. Le mutazioni della figura del borghese – di cui il contenitore lessicale messo in campo dalla produzione letteraria è figura e di cui sono espressione gli orientamenti della prosa – descrivono pertanto un paradosso che è alla base delle dinamiche capitalistiche: la “produttività dello spirito” di cui il borghese si rende protagonista, che nei romanzi è riflessa attraverso l’irruzione del quotidiano, del pratico e dunque della razionalizzazione – e che si sostanzia, nota Moretti, nell’uso dei “riempitivi”, in grado di offrire un nuovo tipo di “piacere narrativo che è compatibile con la nuova regolarità della vita borghese” (p. 68) –, secondo un rinnovato modo di intendere il principio di realtà, va progressivamente incontro a un annichilimento delle proprie facoltà, a un processo di adattamento passivo al modo di produzione imperante.

Il capitalismo, che del trionfo borghese era espressione, opera una reductio sulla classe che ne aveva decretato l’infallibilità. Lukács, in un celebre saggio, segnalava l’avvento della descrizione, ai danni della narrazione, come il segno di un’involuzione borghese, successiva alla data segnaletica del 1848. Moretti aggiunge una nota finissima a questa idea:

La razionalizzazione capitalista riorganizzò la trama del romanzo con la regolarità ritmica dei riempitivi – mentre il conservatorismo politico dettò le sue pause descrittive, dove i lettori (e i critici) cercavano sempre più il “significato” dell’intera storia (p. 78).

Epilogo contraddittorio di un secolo che l’autore appella come “serio”. La serietà oggettivante, l’acribia descrittiva e riempitiva, rivelano un’impotenza di fondo (l’incapacità di pensare la totalità, in soldoni): “uno stile – chiosa Moretti – che, attraverso il lavoro indefesso, ha portato la prosa borghese a un livello di oggettività e coerenza estetica senza precedenti – per poi scoprire che non sa più cosa pensare del suo oggetto” (p. 82).

Il borghese sotto scacco, insomma. E viene ovviamente da chiedersi se questa sconfitta – un annebbiamento, per usare un campo metaforico assai presente nel libro – non prefiguri una lezione per il presente; se, cioè, quella “zona grigia” che produce il paradosso di un soggetto di classe incapace di governare i processi materiali di cui è latore e sostenitore, e di cui, al massimo, può farsi feroce critico –nella lucidità con cui Ibsen riconosce “l’impotenza del realismo borghese davanti alla megalomania capitalista” p. 154 – e moralistico censore, non sia un’occorrenza importante nell’oggi, da valutare e studiare anche con gli strumenti della critica culturale.

Un oggi, del resto, in cui all’ipertrofia spasmodica dell’Io – che trova ovvia figurazione nella produzione dell’immaginario, non solo letterario – si collega una più generale incapacità del soggetto di collocarsi in uno spazio-tempo sociale definito e cosciente.

Riferimenti bibliografici
F. Fortini, Opus servile, in Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003, pp. 1641-1652.
F. Jameson, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico, Garzanti, Milano 1990.
G. Lukács, Narrare o descrivere?, in Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1964, pp. 269-323.
F. Moretti, Il borghese. Tra storia e letteratura, Einaudi, Torino 2017.

*L’immagine presente nell’articolo e in anteprima è un dettaglio della copertina del libro.

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