Chi sono i predatori? Siamo tutti noi umani, borghesi intellettuali o coatti fascistoidi, ma l’aggettivo del titolo forse è un po’ forviante. Sembrerebbe più giusto definirci “distruttori”, perseguitati dalla maledizione di rompere, mandare in pezzi, tutto quello che tocchiamo, compreso il pianeta. Non a caso il film di Pietro Castellitto comincia col totale su un paesaggio di pale eoliche che girano nel vento come braccia di giganti artificiali, istaurando un rapporto problematico con gli alberi (vivi) del paesaggio stesso. Diciamolo subito: il primo film diretto da Pietro Castellitto, giovanissimo figlio di Sergio e di Margaret Mazzantini, è tutt’altro che perfetto, anche se ha vinto il premio al Festival di Venezia 2020 per la migliore sceneggiatura nella sezione Orizzonti. Troppa carne al fuoco, si è detto: tipico errore giovanile.
Indulgenza a vezzi autoriali, che intralciano la comprensione della trama. Irrita l’insistenza su inquadrature decentrate o, inversamente, simmetriche, divenute stereotipi del genere “film d’autore”. Siamo d’accordo: troppi vezzi autoriali, ma a soffrirne non è la “comprensione della trama”, che poco importa al giovane regista, bensì il lato folle, surreale e onirico del film, la leggerezza metafisica, quasi da cinema muto, che ne costituisce la chiave più autentica. Pietro è già stato attore adolescente, diretto in più occasioni dal padre, nonché da Luca Pellegrini in È nata una star? (2012, dal racconto di Nick Hornby), dove ha avuto modo di collaudare un tipo di recitazione straniata e stranita: mentre gli altri parlano, perdendosi in fiumi di parole, inseguendo le battute tipiche della commedia all’italiana, Pietro preferisce assumere l’aria trasognata d’un personaggio d’altri tempi, bocca aperta, un po’ tonto.
In I predatori possiamo certo riconoscere qualche ricordo d’un film come Ferie d’agosto di Paolo Virzì (1996), specie per quanto riguarda lo spunto del contrasto tra le due famiglie appartenenti ad ambienti sociali diversi, ma personalmente mi veniva in mente ben altro. A un certo punto, pur tra errori e ingenuità, mi è accaduto di pensare addirittura a Elia Suleiman, altro fabbricatore grottesco di bombe che scoppiano sempre fuori tempo. Due famiglie, i Pavone (intellettuali alto borghesi) e i Vismara (armaioli fascisti che vivono a Ostia) si incrociano, per puro caso.
La distanza tra i due clan resta abissale, ma qualcosa passa dall’uno all’altro. Pierpaolo Pavone (Masssimo Popolizio) ucciderebbe volentieri il primario della clinica in cui lavora, utilizzando il fucile che i Vismara gli hanno regalato per aver salvato la vita (tramite massaggio cardiaco) alla loro vecchia nonna semi-rimbambita. La nonna dei Pavone è altrettanto rimbambita: per i suoi novant’anni, la nipote le dedica una canzone, in cui si parla di merda di piccione da spargere sulla folla. La canzone piace a tutti i commensali, meno che alla nonna. La nipote inquadra i parenti, uno per uno, facendo girare intorno le due dita, come se anche lei girasse un film, ma un film più amaro che divertente. Ludovica (Manuela Mandracchia), moglie di Pierpaolo, è invece un’affermata regista, che sta dirigendo un film sulla Grande Guerra, in cui è prevista l’impiccagione d’un disertore. La scena è talmente realistica, che l’attore rischia di morire davvero impiccato, appeso al capestro – ma l’unica cosa che preoccupa Ludovica è la scena andata a male. I Vismara trafficano in armi, hanno contatti con la malavita organizzata, e Claudio (Giorgio Montanini) insegna a usare il fucile al figlio e alla figlia, incoraggiato dal fratello Carlo e da Bruno (Dario Cassini) che ama travestirsi e fare gli scherzi più trucidi, a base di pistole puntate.
Siamo nell’universo del grottesco, tipico, come s’è detto, della commedia all’italiana, ma il personaggio di Federico si incarica di trasportare il grottesco stesso su un altro piano, che è quello della gag da cinema muto. Siamo di fronte a un film alla Tati, dove contano soprattutto i gesti, travestito da film parlato, a un rendiconto doloroso, a un apologo amaro sulla società italiana d’oggi, travestito da commedia. Nessuno si salva. Non c’è posto per moralismi. Il film è un seguito di distruzioni e autodistruzioni, già dal momento in cui il venditore di orologi, andando a truffare la vecchia Vismara, scompare dall’inquadratura, reso invisibile dal fumo della propria pipa. Le palline da ping-pong restano sospese in aria, si salta vestiti nelle piscine, le luci si spengono come vecchie candele consumate. Nel gioco della distruzione, a farne le spese sono gli oggetti, come avveniva nel muto.
Il primario della clinica sbatte una porta, e il quadro appeso alla parete cade, andando in pezzi. Federico fa cadere il bicchiere della birra che sta bevendo con un amico, seduto al bancone d’un bar. Immerge nel vino l’auricolare del fratello. Rompe un salvadanaio per racimolare i soldi con i quali acquistare una bomba dai Vismara. Di questa bomba ha “profonda necessità”: gli serve per far saltare in aria la tomba di Nietzsche e i simulacri in gesso che la circondano. Perché mai? Il suo professore di filosofia, barone universitario, ha in progetto di riesumare il corpo del filosofo per studiarne il cranio, ma non vuole portare Federico con lui. Lo considera inaffidabile. Come Buster Keaton allora, indossato un elmetto, Federico corre a collocare la bomba, che naturalmente sembra non voler scoppiare. Lui si avvicina, e non vediamo altro che l’elmetto, mentre vola per aria. Un’ultima nota: per tentare di consolarlo dell’esclusione, il barone universitario gli regala una rara edizione del libro di Curt Paul Janz sulla vita di Nietzsche. Ideale per un riferimento bibliografico finale – ma a questo punto occorrerà rinunciarci: Federico ce lo tirerebbe dietro.
I predatori. Regia: Pietro Castellitto; sceneggiatura: Pietro Castellitto; montaggio: Gianluca Scarpa; interpreti: Pietro Castellitto, Massimo Popolizio, Giorgio Montanini, Manuela Mandracchia, Dario Cassini, Anita Caprioli; produzione: Fandango, Rai Cinema; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia; durata: 109′.