Sono passati ormai dieci anni da quando per la prima volta una serie televisiva, all’epoca sconosciuta, ha cominciato a raccontare gli effetti che le nuove tecnologie e i media contemporanei hanno sulle forme di vita, le relazioni e le modalità di socializzazione. Attraverso la distorsione della narrazione distopica, Black Mirror è diventata lo specchio di una realtà in rapida evoluzione, che ruota essenzialmente intorno allo schermo quale dispositivo e simbolo delle trasformazioni che la digitalizzazione, la rete e la medialità diffusa hanno determinato. Forse uno dei motivi della longevità della serie di Charlie Broker è stata la capacità di cogliere, attraverso il concetto dello specchio nero, il movimento dominante delle trasformazioni tecnologiche contemporanee: il passaggio da uno schermo-cornice, luogo della messa in scena e dell’iper-rappresentazione del reale e delle sua spettacolarizzazione (S01E01), ad uno schermo-ambiente, oggetto tecnico che istituisce, per dirla con Simondon, nuovi ambienti associati e con essi determina nuove prassi e nuove forme di relazione (S03E01). Poi è successo l’impensabile: alla distopia narrativa si è sostituita la realtà distopica della pandemia. Gli schermi sono diventati la nostra interfaccia primaria di vita, lo spazio per rimediare la distanza opportuna (Treleani, Zucconi 2020). E mai come in questo caso nel termine rimediazione risulta facile cogliere la sua doppia accezione: quella del porre rimedio a qualcosa, e quella di processo di riconfigurazione dell’esperienza attraverso i media.

Proprio per il momento che stiamo vivendo, il libro a cura di Mauro Carbone, Anna Caterina Dalmasso e Jacopo Bodini, Il potere degli schermi. Contributi italiani a un dibattito internazionale acquista oggi un’importanza decisiva. Restituire le prospettive teoriche più significative di studiosi italiani, che proprio negli ultimi dieci anni hanno provato a pensare lo schermo e i suoi poteri, fa emergere il perimetro entro cui si gioca ciò che Mauro Carbone nel suo intervento definisce, riformulando la nozione deleuziana di «regime di luce», «regimi di visibilità». Individuare i confini dei regimi di visibilità della contemporaneità significa indagare le condizioni di possibilità, tecniche e politiche, del mostrare e dell’occultare, ciò che rende possibile quelle «esperienze schermiche multimodali», che già facciamo quotidianamente o che si stanno sperimentando. È significativo, come sottolinea Pinotti, che l’intensificazione della riflessione sugli schermi è emersa proprio quando, con i nuovi dispositivi della realtà virtuale e di quella aumentata, lo schermo sembrerebbe scomparire.

Un modo per provare, allora, ad attraversare questo volume molto ricco è quello di leggerlo a partire da una domanda, che in realtà al suo interno ne contiene altre due: cosa (ci) fanno (fare) gli schermi? Il tema centrale che anima, seppur con prospettive diverse, tutti i contributi, è quello di indagare le funzioni dello schermo, in cui si condensa anche il loro potere, nella continua e costante reversibilità, tra il mostrare e il nascondere, il vedere e l’esser visto, l’agire e l’esser agito. Questo tema è attraversato in profondità da quello sguardo archeologico a cui sempre più spesso, muovendo da orizzonti teorici diversi, la teoria del cinema e dei media ricorre per provare a comprendere la contemporaneità. Questa archeologia dello schermo, in senso ampio, ha nel concetto di archi-schermo (Carbone 2016) uno dei suoi momenti fondativi per il dibattito italiano (e non solo, ricordiamo che nel 2018 è uscito un volume in francese su questo tema degli stessi curatori). L’archi-schermo funge da concetto euristico, non tanto per tracciare una genealogia dello schermo contemporaneo, quanto per individuare quelli che Carbone definisce temi e variazioni.

I contributi, dunque, mettono in luce specifiche variazioni dell’esperienza schermica, proponendo al lettore percorsi diversi e a volte anche non necessariamente conciliabili, in un continuo andirivieni nella storia dell’arte e dei media, in cui per contrasto o affinità emergono lenti attraverso cui guardare il nostro presente. Una di queste può essere quella del rapporto tra emersione e immersione, centrale nel contributo di Cometa sulla cultura visuale del paleolitico, da cui si evidenzia una specifica attitudine dell’homo sapiens, a «entrare in contatto con le superfici» (Carbone, Dalmasso, Bodini 2021, p. 89). Questo paradigma dell’esperienza schermica quale luogo della reciprocità tra visualità e apticità risulta essere diversamente declinato anche in altri contributi e con esiti diversi, come nel confronto tra la «dinamica razionalizzante del regime scopico generato dalla prospettiva» (ivi, p. 75) in epoca moderna e le presunte forme di incantamento della cultura visuale contemporanea, nell’intervento di Lingua.

Attraverso un percorso, dunque, in cui le riflessioni e i paradigmi teorici sono indissolubilmente intrecciati, entriamo nel vivo della seconda domanda, implicitamente contenuta in quella guida, ovvero: cosa ci fanno gli schermi? Forse questa per certi versi è anche la questione più sentita oltre l’ambito degli specialisti, quella a cui più spesso e con più urgenza i teorici dei media e del cinema sono chiamati a rispondere, proprio perché va oltre i confini disciplinari, sollecitata dalle preoccupazioni quotidiane e dalle incognite di questa accelerazione tecnologica che oggi appare fuori controllo. Dai contributi emergono diverse risposte, dall’analisi archeologica di Eugeni sul rapporto tra cinema e ipnosi al paradigma dell’enattivismo proposto da Carocci, per comprendere le forme di organizzazione della nostra attenzione operate dai nuovi dispositivi tecnici, basate su una sollecitazione della nostra affettività. Sullo sfondo resta un punto decisivo, che forse oggi, più che mai, necessita di essere valorizzato, vale a dire la centralità del coinvolgimento corporeo nell’esperienza dello schermo. Possiamo provare a rispondere alla domanda “cosa ci fanno gli schermi?”, partendo dalla proposta di Gallese e Guerra: essi ci permettono di fare un’esperienza visiva del mondo che è però sempre il risultato di processi che vedono coinvolto il sistema motorio. Scrivono gli autori:

Lo schermo non è più solo un medium, diviene una tecno-protesi corporea, perché è il corpo che costituisce – performativamente ed in modo analogico – il motore di innesco e di arresto della riproduzione digitale delle immagini, grazie al contatto con le dita della nostra mano. I due significati di “digitale” si ricongiungono nella comune origine etimologica, come due dita che si toccano, mentre è l’etimologia di schermo, che viene ora rimessa in gioco dalla vicinanza e dalla presenza che questo oggetto assume rispetto al nostro corpo (p.43)

Credo sia essenziale sottolineare che a partire da una domanda che in parte implica l’idea di un potere subito, una sorta di passivizzazione dell’utente/spettatore rispetto al potere magnetico dello schermo – prospettiva che a ben vedere è dominante anche nel discorso comune sulle tecnologie (“gli schermi ci fanno male”) – arriviamo in realtà a mettere in luce il nostro coinvolgimento profondo, corporeo, nel dispiegamento di questo potere. La performatività del corpo è il motore dell’esperienza della visione dell’immagine su schermo e questa viene esponenzialmente sollecitata dagli schermi digitali con cui ci interfacciamo quotidianamente.

Se è vero allora, come scrive Casetti, che lo schermo più che una forma (o una specifica funzione) è in realtà una matrice di operazioni che emerge da «un assemblaggio di strumenti, bisogni, pratiche, individui e circostanze che lo fanno essere uno schermo» (ivi, p. 127), viene da chiedersi qual è la specifica performatività che operiamo con gli schermi digitali. Arriviamo così alla terza domanda: cosa ci fanno fare oggi gli schermi? Due prospettive molto importanti emergono dagli interventi di Pietro Montani e Giovanna Borradori. Per Montani gli schermi digitali abilitano quella che l’autore definisce «scrittura estesa», ovvero nuove forme di espressione e tecniche discorsive, che sollecitano una specifica apticità, annettendo «un’ulteriore performance sensibile, specificamente tecnica, allo statuto multimodale della nostra immaginazione» (ivi, p.158). Borradori, invece, entra nel merito di una delle performance più ricorrenti e diffuse delle prassi digitali, quella del selfie. Spazzando via qualsiasi prospettiva patologica-voyeuristica, suggerendo di andare oltre il paradigma rappresentazionalista, Borradori sostiene con grande originalità ed efficacia che i selfie piuttosto che essere l’esposizione di un sé già formato sono:

Schermi su cui si proietta e si protegge lo spettacolo dell’autorappresentazione […] la cui posta in gioco è la promessa della raccontabilità dell’esperienza del sé. Lontano dall’essere un dispositivo tecnico dello smartphone, la telecamera frontale delimita una nuova condizione sociale e politica visto che la sopra-vvivenza del sé narrabile dipende dall’essere costantemente seguito, guidato e sorvegliato (pp. 226-227).

In altre parole, ciò che gli schermi ci permettono di fare non è tanto esporre il nostro sé, quanto renderne disponibile una sua rappresentazione a un movimento dinamico e performativo collettivo, per una sua narrabilità che ha però nella condivisione e nella partecipazione collettiva il suo proprio luogo di elaborazione e nelle forme previste della scrittura estesa di cui parla Montani la sua sintassi. In ciò risiede uno dei poteri principali degli schermi, nella loro capacità di istituire nuove condizioni politiche e sociali. Forse allora la domanda sul cosa ci fanno fare gli schermi resta oggi quella più urgente e irrisolta: con rapidità e relativa imprevedibilità emergono di continuo nuove modalità della performatività digitale, nuove prassi di condivisione e socializzazione, nuove forme di espressione, a volte standardizzate dalle infrastrutture dominanti, altre volte capaci di aggirare norme e regole, anzi di inventarne di nuove. La pragmatica delle esperienze schermiche, per usare la definizione di Carbone, è oggi l’urgenza su cui è necessario far convergere i nostri sforzi teorici, creativi e politici. 

Riferimenti bibliografici 
M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Cortina, Milano 2016.
M. Treleani, F. Zucconi, a cura di, Remediating Distances, in “Img Journal”, n.3, 2020. 

Mauro Carbone, Anna Caterina Dalmasso, Jacopo Bodini, a cura di, I poteri degli schermi. Contributi italiani a un dibattito internazionale, Mimesis, Milano-Udine 2020.

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