Sono trascorsi quattordici anni dalla schermata nera, senza audio e lunga dieci secondi, con cui termina I Soprano (1999-2007), una della serie tv che ha rivoluzionato le forme estetiche delle serialità e il suo rapporto con gli spettatori. Dieci secondi in cui la narrazione si interrompe, come se lo schermo si fosse spento, facendo sprofondare gli spettatori nel buio e nel silenzio più assoluti. Dieci secondi che hanno scatenato la furia interpretativa di critici e fan, divisi tra la sorpresa e il fastidio, schierati tra la tesi secondo la quale la storia sia stata inaspettatamente interrotta e quanti invece hanno interpretato il nero come la messa in scena della morte di Tony Soprano attraverso il suo punto di vista (Mittell 2017, pp. 540-549). Rifiutando di attenersi alle aspettative del pubblico e alle norme del mezzo televisivo, la sequenza finale de I Soprano ha contribuito a ridefinire i limiti e le potenzialità del formato seriale.

Se con il brusco taglio dal personaggio di Tony Soprano seduto in una tavola calda al nero termina “Made in America”, l’ultimo episodio della serie tv, lo show runner David Chase viola e al contempo riflette sulle convenzioni e le strutture della serialità, con il film The Many Saints of Newark il racconto non riprende da dove si era interrotto bensì ricomincia, spostando le lancette dell’orologio alla fine degli anni sessanta. Il film, diretto da Alan Taylor, sceneggiato da Chase e Lawrence Konner, è infatti un prequel, in cui al percorso di (de)formazione di Tony si affianca l’epopea criminale della famiglia allargata del protagonista. È dunque sulla scia della struttura drammaturgica della serie-madre, che nel film si assiste al parallelo disfacimento morale di un uomo e della sua comunità.

Nell’incipit di The Many Saints of Newark la macchina da presa si aggira tra le lapidi di un cimitero, fino a raggiungere quella di Christopher Moltisanti. Strangolato da Tony nella sesta stagione della serie, le sue parole riemergono attraverso una voce fuori campo che racconta le origini italiane del suo cognome – da cui deriva anche il titolo del film – e ci apre le porte della narrazione, il cui inizio è cronologicamente collocato ben prima della nascita del suo narratore.

È il 1967, la famiglia Soprano è ancora la famiglia Di Meo e il piccolo Tony va in giro con l’amato zio Dickie. I due raggiungono il porto di Newark e accolgono il padre di Dickie, Hollywood Dick, appena rientrato da una vacanza in Italia in compagnia di Giuseppina, la sua nuova, giovane sposa campana. Fin dalla prima sequenza emerge la complessità delle relazioni parentali e il modo in cui i legami si costruiscono nel rispetto di tradizioni, più o meno inventate, all’interno della comunità italo americana per poi logorarsi fatalmente, fino a una violenta distruzione (Sepinwall 2021).

Il 1967 anche è l’anno della rivolta dei neri a Newark. Nel film gli scontri sono inclusi e assorbiti dal rapporto che Dickie intrattiene con Harold. Quest’ultimo gestisce per conto del primo le scommesse clandestine nei quartieri abitati dagli afroamericani. La rivoluzione cantata da Gil Scott-Heron e il risveglio della comunità di colore invocato dai manifestanti si traducono in rappresaglie urbane, furti in massa e soprattutto nel tentativo di Harold di emanciparsi dal suo capo, per riuscire a gestire in proprio il racket delle scommesse.

Attraverso un brusco salto in avanti The Many Saints of Newark passa al 1971: Johnny Boy, il padre di Toni, è stato appena scarcerato e nel frattempo quest’ultimo è diventato un adolescente che vorrebbe iscriversi al college e diventare un giocatore di football. Nella seconda parte del film è Michael Gandolfini ad interpretare Tony, quello stesso personaggio che ha segnato la carriera artistica del padre di Micheael, James. L’universo narrativo della famiglia Soprano garantisce così un passaggio di consegne, all’interno di una dinamica che fa scorrere in parallelo la fiction seriale e cinematografica con le biografie degli attori, tra padre (James Gandolfini è scomparso nel giugno del 2013) e figlio.

Il fulcro narrativo e genealogico di The Many Saints of Newark non è Tony, bensì Gentleman Dickie: elegante e ricercato nel vestire, empatico e sentimentale, carismatico e spietato. Un mix di atteggiamenti e qualità che lo renderanno l’idolo di Tony. E quest’ultimo, pur idolatrandolo, durante la sua maturazione sarà costantemente incapace di emularlo se non attraverso una riproduzione dai tratti grotteschi: ingordo e sovrappeso, simpatico ma impulsivo, incapace di tenere assieme la famiglia e soddisfatto solo al mattino, quando le anatre riempiono la piscina della sua villa e può dare loro da magiare a petto nudo, indossando un paio di boxer e un accappatoio.

Se la ragione e la sfida principali che hanno permesso la fidelizzazione degli spettatori nei confronti de I Soprano risiedono nella curiosità di attendere e vedere un se Tony avesse avuto della chance di cambiamento (Nussbaum 2020, p. 55), nel caso The Many Saints of Newark il piacere della visione risiede nel desiderio di scoprire le cause che hanno reso Tony quel personaggio che, malgrado tutto, ha costituito un punto di non ritorno nella serialità contemporanea. Come se non fossero bastate le ore di visione in sua compagnia, in particolare il rapporto morboso con la madre Livia e le sedute di psicoterapia con la dottoressa Melfi. Due donne che nella struttura narrativa della serie costituiscono due differenti porte di accesso alla complessità del personaggio Tony e che, pur attraverso forme differenti, vengono riprese dal film.

Connivente ma soprattutto insicura e manipolatrice, Livia Soprano assurge, nella serie come nel film, ad alter ego di Tony. Il film ci mostra le ragioni del comportamento disfunzionale di Livia e i suoi effetti sul figlio: maltrattata dal marito, che arriva a spararle un colpo all’altezza dell’acconciatura durante un’uscita serale, insofferente nei confronti di Tony e costretta a rincorrerlo per punirlo, incapace di comprenderne il comportamento. Nella serie, le sedute con la psichiatra Jennifer Melf sono un’allegoria della relazione tra gli spettatori e la serie (Nussbaum 2020, p. 58). Nel film, tale funzione è sostituita dalle chiacchierate tra Dickie e il fratello gemello di suo padre, Sal. I due fratelli sono entrambi interpretati da Ray Liotta e Dickie conoscerà Sal solo dopo aver brutalmente ucciso il padre. Sal, che sembra intenzionato a pagare il suo debito con la giustizia, sconta una lunga pena per omicidio e non è un caso se Dickie passa a trovarlo quando il senso di colpa lo assale. Il primo incontro avviene proprio dopo l’uccisione del padre. L’omicidio di Giuseppina, degradata al rango di comare e poi annegata dallo stesso Dickie in seguito alla scoperta del suo tradimento, sarà il pretesto di un successivo incontro. Dickie confida a Sal la sua volontà di voler fare del bene e di cercare di mantenere una condotta accettabile: in una scena dai tratti onirici a cui la serie ci aveva già abituati è addirittura l’allenatore di una squadra di baseball composta da bambini ciechi. Ma le sue intenzioni si scontrano con la quotidianità delle relazioni malsane. Secondo Sal, Dickie non ha altra scelta se non di recidere i legami che lo trattengono e corrompono, persino di smettere di frequentare Tony.

Dopo l’abbandono di Dickie e la sua uscita di scena, il Tony della serie televisiva non cresce diversamente dallo zio, non riesce a scollarsi di dosso quella melanconia e quell’espressione trasognata, sempre pronta a trasformarsi in ghigno beffardo, non trova la forza per fuggire da Newark. Questa impossibilità è evidenziata già dai titoli testa della serie, uno dei tra i molti calchi ed omaggi a Quei bravi ragazzi (1990) di Scorsese, in cui Tony compie in auto il tratto di strada da New York al New Jersey. Ogni mattina, in assonanza con il brano degli Alabama 3 Woke Up This Morning, la colonna sonora degli opening credits, e quindi all’inizio di ogni puntata, frammenti della città e parti del protagonista sono tagliate e cucite assieme dal montaggio. Quell’uomo non può sopravvivere senza l’ambiente che lo circonda.

Tony resta soffocato tra le braccia di una famiglia che lo teme, non comprendendolo fino in fondo, e nei confronti della quale si sente estraneo pur essendone incluso a causa dei legami di sangue. Dopo di lui la serialità darà vita a tanti altri antieroi, da Walter White in Breaking Bad (2008-2013) a Kendall Logan in Succession (2018- in corso), passando per Frank Gallagher in Shameless (2011-2021). Personaggi imperfetti e per questo rivelatori dei malesseri sociali contemporanei, claudicanti all’interno di comunità corrose dalla paura dell’altro e corrotte dall’odio reciproco.

Riferimenti bibliografici
J. Mittell, Complex tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, a cura di F. Guarnaccia e L. Barra, Minimum Fax, Roma 2017.
E. Nussbaum, Mi piace guardare. Critica e riflessioni sulla tv americana, a cura di F. Guarnaccia e L. Barra, Minimum Fax, Roma 2021.
A. Sepinwall, The Ultimate ‘Sopranos’ Insider’s Guide to ‘The Many Saints of Newark, in “Rolling Stone”, 1 ottobre 2021.

I Molti Santi del New Jersey Regia: Alan Taylor; sceneggiatura: David Chase,Lawrence Konner; fotografia: Kramer Morgenthau; montaggio: Christopher Tellefsen; musiche: Jahlil Beats, Peter Miller; scenografia: Bob Shaw; interpreti: Alessandro Nivola, Leslie Odom Jr., Vera Farmiga, Jon Bernthal, Corey Stoll, Ray Liotta, Michela De Rossi, Michael Gandolfini, Billy Magnussen, John Magaro, Samson Moeakiola, Joey Diaz; produzione: Chase Films, New Line Cinema, Warner Bros; origine: Usa; anno: 2021; durata: 120’.

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