Chi sono i miserabili d’oggi? In cosa differiscono da quelli ottocenteschi del romanzo di Victor Hugo? Nessuno può saperlo meglio di Ladj Ly, regista nato in Mali, naturalizzato francese, residente a Montferreil, sobborgo di Parigi, dove ha girato, assieme a un gruppo di amici, numerosi cortometraggi che documentano le violenze razziste della polizia locale nei confronti dei neri immigrati, subendo anche arresti e condanne per accuse non provate di violenza e oltraggio. “I miserabili” era un cortometraggio del 2017, e ora è il titolo d’un lungometraggio, premio della Giuria a Cannes nel 2019.
Mentre tutta Parigi è in festa ed esulta per la vittoria della Francia ai mondiali di calcio, a Montferreil arriva un nuovo poliziotto, l’agente Ruiz (Damien Bernard), che viene subito mandato di pattuglia per le strade del quartiere, in macchina con i colleghi Chris (bianco razzista) e Gwada, d’origini africane, che funge da autista. La pattuglia è eterogenea: la dirigente del commissariato locale, che è una donna perspicace e disincantata (Jeanne Balibar), conosce bene i metodi sbrigativi di Chris, non li approva, ma non è in grado di rimpiazzarlo. Si trincera dietro l’autoironia. Forse spera che l’arrivo del nuovo agente possa fare un po’ da contrappeso.
In questo modo, Ruiz prende subito contatto con la realtà del quartiere, fatta di violenza nonché di piccoli e grandi soprusi. Chris opera perquisizioni arbitrarie su ragazze africane in attesa alla fermata dell’autobus, e non nasconde il suo razzismo, che giustifica con la necessità di “farsi rispettare”, ma è costretto a venire a patti col “Sindaco”, il boss dello spaccio di droga, di cui ha bisogno per mantenere una parvenza di pace sociale nel quartiere. Tra gang rivali e ragazzini affamati senza controllo, che giocano nell’immondizia e vivono di piccoli furti, si aggiungono, a complicare le cose, i Fratelli Musulmani, in cerca di proseliti per la loro religione.
L’equilibrio tra clan malavitosi è fragile, la pace è precaria, messa continuamente a rischio dalle tensioni razziali. L’euforia per la vittoria della Francia ai mondiali dura poco. I due poliziotti, che tutti conoscono, perlustrano le strade, ma fingono di non vedere quello che sarebbe troppo pericoloso vedere, prendendosela più che altro con i pesci piccoli. Ruiz, seduto dietro come terzo, si rende subito conto sia del razzismo di Chris, sia della sottomissione di Gwada. Si rende conto che il lavoro della polizia, in quella situazione, non può essere altro che mettere paura ai più deboli e non toccare gli interessi dei potenti. Chris è razzista, ma è davvero convinto che questa sia l’unica cosa da fare: incutere paura per ottenere un minimo di rispetto.
I ragazzini di colore, affamati, ladri e teppisti, costituiscono allora la variabile impazzita, coloro che sconvolgono gli equilibri. Non hanno rispetto né paura, sia nei confronti della polizia, sia nei confronti dei traffici criminali degli adulti. Scivolano come ombre, appaiono e scompaiono, lungo le scale e i pianerottoli dei palazzoni popolari, si rifugiano negli scantinati o sulle terrazze, dall’alto delle quali organizzano servizi di appostamento e vigilanza. Bersagliano di schizzi d’acqua la volante degli agenti, costringendoli a rifugiarsi in fretta dietro i finestrini chiusi.
Tra loro, emergono soprattutto due figure. Una è Buzz, interpretato dal figlio del regista, che si diverte a giocare con un drone. Con questo drone spia le ragazze che si spogliano davanti alle finestre delle proprie case, ma registra anche, casualmente, un incidente durante il quale la pattuglia dei poliziotti ferisce in malo modo, con un colpo di pistola accidentale, un altro ragazzo, Salah, ricercato per aver rubato un cucciolo di leone da un circo. Buzz, dunque, sta come esponente dell’istanza visiva del regista, della sua pulsione a guardare e documentare. Non a caso, Chris vuole tener nascosto l’incidente, mettere le mani sul video e distruggerlo, entrando in urto aperto con Ruiz. Il drone sta per il cinema di Ladj Ly, ma identificarlo con esso sarebbe un’indebita semplificazione. O dovrebbe trattarsi d’un drone magico, capace di costruire una storia con la giusta tensione e con gli attacchi giusti di montaggio. Una storia che si collega a un genere, ma va anche oltre, accettando la contaminazione con la vita.
L’altra figura fondamentale è quella di Salah, il ragazzo che ruba il cucciolo di leone, rischiando di scatenare una guerra tra clan degli spacciatori e rom del circo Zeffirelli (!). È lui a rimanere ferito accidentalmente da Gwada, mentre tenta di fuggire, e la scena è ripresa dal drone. Cosa può farsene, Salah, d’un cucciolo di leone? Niente, certo, a parte farsi bello con le ragazze e inserire la sua impresa sul cellulare, incurante del fatto che così si autodenuncia. Ma questi ragazzi, dice Chris, non riescono a “fare una cazzata” senza metterla su Internet. Il leoncino, in questo caso, verrà ritrovato e restituito al domatore proprietario, ma rimane un oggetto-feticcio, feticcio specialmente perché vivente, dall’inestimabile valore simbolico.
Nella scena più impressionante del film, il domatore afferra Salah e si chiude con lui, per punirlo, nella gabbia d’un leone adulto inferocito – solo che il leone non è inferocito, si limita a ruggire senza attaccare. I poliziotti non sanno che fare, poi il domatore esce dalla gabbia assieme al ragazzo spaventato a morte, e si mette a ridere: “Non si può più nemmeno scherzare”, dice. La vicinanza con la belva è terrificante, è un trauma, ma sempre meno pericoloso della prossimità di umani ostili. Noi ricordiamo il leone di Il circo (1928) di Chaplin, e ancora prima la tigre alla quale si abbracciava Max Linder in Sette anni di guai (1921). Falsa ferocia di bestie calunniate.
La rivolta dei ragazzini, l’impossibilità dell’accettazione, da parte loro, di ciò che è stato fatto a Salah, scatena il caos. Saltano tutti gli equilibri. Vengono attaccati i poliziotti, ma anche gli adulti interessati alla sempiterna mediazione, propizia agli affari. Si sparano razzi sulle auto, si dà fuoco alle scale dei palazzoni popolari. Salah diventa davvero un diavolo, uno spettro maligno che, torcia alla mano, al comando di un’orda scatenata, finisce per trovarsi faccia a faccia con Ruiz, l’unico che ha cercato di aiutarlo. I due, nel caos, si scambiano un lungo sguardo silenzioso, da un pianerottolo all’altro. Forse Salah tenterà di bruciare anche Ruiz, forse no. Non lo sapremo mai, perché il film finisce.
Finisce con una citazione da Victor Hugo, tratta dal romanzo: «Non ci sono uomini o erbe cattive, esistono solo cattivi coltivatori» (Hugo 1981, p. 284); ma a questo punto Ladj Ly non può più pretendere che ci crediamo. Emerge, e a mio parere si impone, il fondo di sostanziale pessimismo gnostico che rende certe vite succubi dell’incombente regno infernale. Non so – se dovessi qualificare il film con un solo aggettivo, lo definirei “sconsolato” e direi che qui, in qualunque modo la pensi Ly, sta il suo valore.
Riferimenti bibliografici
V. Hugo, I miserabili, Garzanti, Milano 1981.
I Miserabili (Les Misérables). Regia: Ladj Ly; sceneggiatura: Ladj Ly, Giordano Gederlini, Alexis Manenti; fotografia: Julien Poupard; montaggio: Flora Volpelière; musiche: Pink Noise; interpreti: Damien Bonnard, Alexis Manenti, Djibril Zonga, Issa Perica, Al-Hassan Ly; produzione: Srab Films; distribuzione: Lucky Red, MioCinema; origine: Francia; durata: 103′.