L’ufficio stampa della BBC ha descritto I May Destroy You (BBC/HBO, 2020) come un drama «sul consenso sessuale e le relazioni contemporanee», richiamando implicitamente quel fertile filone di dramedy che ha le sue radici in Sex and the City e arriva fino a Master of None, Fleabag o Back to Life. Eppure si tratta di una serie molto più ambiziosa e ampia di quanto la definizione di «consent drama» lasci immaginare. Il tema centrale è, senza dubbio, l’elaborazione del trauma: all’osso, I May Destroy You descrive le conseguenze dello stupro subìto dalla protagonista Arabella, una Twitter star trasformata in scrittrice grazie al successo del suo memoir dal titolo Chronicles of a Fed-Up Millennial, ora alle prese con il difficile secondo libro. Ma la densità di contenuto è tale che le tematizzazioni possibili si espandono a ogni nuova visione: l’amicizia, la Bildung dell’artista, la discriminazione razziale, la cancel culture, la dipendenza dai social media, i rapporti tra autori e produzione nell’industria culturale.
I May Destroy You è, innanzitutto, una creatura di Michaela Coel, che ne ha scritto tutte le sceneggiature, ha co-diretto (con Sam Miller) gran parte degli episodi, è executive producer e interpreta la protagonista. Per di più, la vicenda principale è ispirata allo stupro che Coel ha realmente subìto e di cui ha parlato pubblicamente qualche anno fa in un discorso di grande spessore e coraggio.
A prima vista, quindi, si potrebbe pensare a una variazione del millennial dramedy in stile Girls: personaggi afrodiscendenti innestati in un genere tipicamente bianco. Già la precedente Chewing Gum, insieme a Insecure di Issa Rae, aveva fatto parlare di sé per questo motivo: metteva in scena una protagonista nera a cui era concesso di essere imperfetta e goffa, lontana sia dagli stereotipi etnici sia dalla perfezione eroica di una Olivia Pope. Non sarebbe un risultato da poco, ma credo che I May Destroy You vada sottratta a questo contesto limitato e considerata invece nel macrocontesto della serialità contemporanea in generale, dando la dovuta attenzione alla sua enorme densità di significato e alla sua notevole elaborazione formale.
Innanzitutto, una delle chiavi fondamentali da utilizzare è la prospettiva intersezionale. La protagonista Arabella è nera, donna, proviene dalla working class: l’intera serie potrebbe essere interpretata come un percorso di maturazione tramite la riconciliazione di questa molteplice appartenenza. The Alliance (1:06), ad esempio, è un mini-saggio sull’intersezionalità che illustra il concetto meglio di qualsiasi definizione potrei darne qui (rimando a Havinsky 2014).
All’inizio dell’episodio Arabella si unisce a un gruppo di supporto per vittime di abusi guidato da Theo, una sua conoscente dei tempi della scuola superiore. Assistiamo per qualche minuto alla prima riunione, poi un flashback ci porta nel 2004 e affronta la backstory di Theo. La vediamo appartarsi con un ragazzo, Ryan, in un’ala in costruzione dell’edificio scolastico; i due sono eccitati e si lanciano in un goffo rapporto sessuale, ma all’improvviso Ryan tira fuori un cellulare (rigorosamente d’epoca) e le scatta delle foto. Theo lo ferma immediatamente e Ryan, contrariato ma con estrema naturalezza, si offre di pagarla, dando per scontato che lei abbia già fatto la stessa cosa con altri. “Coming at me like some psycho!” [“Oh mi stai attaccando come una pazza!”], le dice, “Like I’m the only guy trying to build an archive in these streets” [“Come se fossi l’unico del quartiere che vuole farsi un archivio”]. Theo decide di vendicarsi: accetta i soldi e gli lascia scattare le foto, ma poi di nascosto butta il cellulare di lui da una finestra, si procura un coltello, si ferisce da sola, scoppia a piangere davanti a una professoressa e lo accusa di stupro. Arabella adolescente incrocia la storia solo a questo punto: un amico, durante la ricreazione, le mostra una foto che Ryan aveva fatto in tempo a inviargli e dalla quale si deduce che il rapporto con Theo era consenziente. L’amico però si rifiuta di mostrarla al preside perché nel suo archivio ne ha altre simili, di varie altre ragazze, e teme di finire nei guai anche lui. Arabella decide di intervenire: si fa inviare la foto sul suo cellulare e si dirige dal preside, scagionando così Ryan.
Qual è il senso di questa sequenza? Per comprenderla è necessario sostituire la polarità bene/male con quella di oppressione/liberazione. Come ha scritto Patricia Hill Collins (2002, p. 126): «L’intersezione dell’oppressione sessuale, di genere e di classe non produce né oppressori assoluti né pure vittime». Ryan è nero, Theo è bianca. Dopo aver visto la foto, Arabella dice: “She’s white! […] White girl tears have high currency […] We could have done the exact same thing, all we’d get is detention […] I sneeze and Miss Mott [un’insegnante] is talking about I’m showing signs of intimidation […] If I cry, all Miss Mott would see is weapons of mass destruction leaking out my eyeballs”. [“Ed è bianca! […] Il pianto di una ragazza bianca vale parecchio […] L’avessimo fatto noi, ci avrebbero messo in punizione […] Quando io starnutisco, Miss Mott [un’insegnante] dice che sto cercando di intimidirla […] Se piangessi io, tutto quello che Miss Mott vedrebbe sono armi di distruzione di massa che mi colano dagli occhi”.]
Non ci sono oppressori assoluti né pure vittime: Theo ha usato come arma il privilegio garantito dalle sue “lacrime bianche”, contro il privilegio maschile che consentiva a Ryan di scattare foto intime a tradimento per usarle come trofeo. Arabella, in questa fase della sua vita, non riesce a identificarsi con una donna bianca e non trova nulla da ridire nel commercio di foto tra maschi, non si ferma a riflettere che la prossima a finire nell’archivio potrebbe essere lei. Sa benissimo, invece, che le sue lacrime non sarebbero state prese sul serio come quelle di Theo. Il sistema sociale in cui vive la spinge a mettere da parte la solidarietà di genere preferendo quella etnica: dopo la liberazione di Ryan, il gruppo di ragazze/i nere/i celebra l’“alleanza” del titolo, in un momento paradossalmente liberatorio, gioioso ed esaltante. “Another day being heros, yeah? […] We just helped our brother escape from Babylon” [“Un altro giorno da eroi, eh? […] Oggi abbiamo aiutato un fratello a fuggire da Babilonia”], dice Arabella tra le esclamazioni di approvazione.
Nell’episodio successivo, Happy Animals (1:07), Arabella adulta legge ai suoi agenti letterari un nuovo pezzo appena scritto: “Prior to being raped, I never took too much notice of being a woman. I was busy being black and poor” [“Prima di essere stata stuprata, non ho mai dato molto peso al fatto di essere donna. Ero troppo occupata a essere nera e povera”]. Prendere in considerazione l’oppressione femminile, prosegue, le sembrava un tradimento della sua infanzia nelle case popolari, chiedere aiuto a un corpo di polizia sistematicamente razzista le sembrava un crimine peggiore dello stupro stesso.
Il posizionamento intersezionale di Arabella la costringe a negoziazioni continue: il rapporto con Theo, per lei benefico, è osteggiato dalle sue amicizie afrodiscendenti; all’esaltazione di scoprire che il big boss della casa editrice è una donna nera, seguirà la delusione di veder rifiutate le sue richieste di aiuto con un sorriso di cortesia. Di converso, va sottolineato, i molti momenti gioiosi sulla scena avvengono all’interno del gruppo amicale composto da neri, in un dispiego di black joy raramente visto in televisione.
In The Alliance è in azione un altro elemento ricorrente di I May Destroy You: la violenza, il trauma e l’oppressione sono evidenti agli spettatori ma invisibili ai personaggi. Questo modo di raccontare è stato usato a fondo da Mad Men, e si potrebbe definire «presa di coscienza» (Rossini 2012), in opposizione alla «fine dell’innocenza» tipica del cinema della nostalgia (Morreale 2009). American Graffiti e Happy Days, per dire, descrivono un “allora” incontaminato, metafora di un’infanzia collettiva purificata dalle negatività. L’”allora” è irrecuperabile e nettamente separato dall’”adesso”, spesso tramite un evento traumatico collettivo che mette fine all’età dell’innocenza: l’assassinio Kennedy, la guerra in Vietnam. Mad Men ribalta questo modello mostrando un passato pieno di negatività, delle quali tuttavia i personaggi non sembrano accorgersi. È un rimosso che resta sullo sfondo, minaccioso, come un mostro in agguato. Costringendo i personaggi a confrontarsi, un po’ alla volta o tramite emersioni improvvise, con ciò che fino a quel momento hanno rimosso, il modello della presa di coscienza congiunge l’”allora” e “adesso”.
Quando I May Destroy You racconta il passato della protagonista, opera nello stesso modo: l’adolescenza è privata di ogni nostalgia e il mondo descritto è brutale e complesso tanto quanto l’oggi, ma popolato di personaggi privi dell’autocoscienza necessaria a identificare i meccanismi oppressivi evidenti allo spettatore. Evitando un tipico cliché da serie TV, il trauma fondamentale non si trova nel passato: è nel presente, e causa un risveglio intersezionale che scuote la visione del mondo di Arabella. Ma la serie estende il modello della presa di coscienza anche al presente: i personaggi incontrano il trauma ma non lo identificano immediatamente, il loro primo istinto è la rimozione. Nel quarto episodio, Arabella subisce una seconda violenza, stavolta da parte del suo editor Zain, che si toglie il preservativo di nascosto durante il sesso. Nonostante lo scopra quasi immediatamente, solo nell’episodio successivo, dopo che avrà sentito altri usare la parola “stupro” in relazione al comportamento di Zain, Arabella prende coscienza di ciò che è successo e riesce a dare un nome al disagio che già provava.
Nello stesso episodio Kwame, uno dei protagonisti di secondo piano, viene violentato da un uomo con cui aveva appena avuto un rapporto. Il suo caso – uno stupro senza penetrazione, da parte di un uomo incontrato su Grindr, con il quale aveva avuto un rapporto consenziente poco prima – non trova il modo di essere portato in superficie: in una scena grottescamente comica, un poliziotto imbarazzato cerca disperatamente di compilare un modulo di denuncia sulla base delle informazioni ricevute, ma tra le caselle che ha davanti non c’è posto per questa storia.
Il colpevole dello stupro di Arabella non sarà mai identificato; la serie, tuttavia, non è interessata alla giustizia retributiva: lo scioglimento finale, enigmatico e disturbante, avviene nel momento in cui la protagonista è in grado di portare il rimosso in superficie e accettare il trauma come parte del suo vissuto.
I May Destroy You si presta a una notevole profondità di analisi. Dall’abbigliamento alle parrucche, da un poster che continua a scollarsi dal muro a intere scene che si svolgono sullo sfondo dell’inquadratura, tutto è messaggio. Qui ho appena grattato la superficie, ma meriterebbero altrettante parole almeno: la famiglia amicale composta da Arabella e i due co-protagonisti, Kwame e Terry; gli archi narrativi degli stessi Kwame e Terry, che hanno meno tempo sullo schermo ma sono altrettanto complessi; l’ossessione di Arabella per Biagio, un ragazzo incontrato durante un soggiorno a Ostia; il rapporto tra Arabella, la casa editrice e gli agenti letterari; il silenzioso coinquilino bianco Ben. Questo racconto così ricco, allo stesso tempo compatto e frammentario, viene perfettamente messo in opera dal formato serie TV.
Una delle caratteristiche peculiari di I May Destroy You è proprio il formato, atipico per la serialità inglese: una stagione unica di dodici episodi da mezz’ora, con un mistero centrale – cos’è successo davvero la notte dello stupro? – che fa da filo conduttore ma che viene spesso accantonato. Alcuni episodi sono contigui, altri sono separati da lunghe ellissi temporali; eventi importanti avvengono fuori scena e ci sono numerose deviazioni, tematicamente rilevanti ma poco utili al plot: la backstory di Theo, ad esempio, non ha ricadute reali sugli eventi successivi. Episodi dominati da un flashback punteggiano la stagione interrompendo il flusso narrativo senza un motivo evidente. Il ritmo, in sostanza, è quello di una serie episodica, nonostante si tratti di una miniserie (da quel che sappiamo, non è prevista una seconda stagione).
Come ha scritto Sean O’Sullivan (2010), la stagione breve da tredici episodi, introdotta nella prima fase delle TV via cavo, è «una nuova e importante unità di significazione», che utilizza una specifica retorica fatta di segmentazione, vuoti, ripetizione e variazione. Il numero tredici non ha rilevanza in sé – è una convenzione diffusa ma nient’affatto universale – contano invece compressione e continuità: fino ai primi anni 2000, nel sistema televisivo dominato dai network generalisti, le stagioni erano molto più lunghe (dai 22 ai 26 episodi), venivano distribuite su un arco temporale ampio e discontinuo (circa nove mesi da settembre a maggio, con pause e repliche), e prodotte a blocchi: un contratto tipico prevedeva lo sviluppo di un primo gruppo di episodi, da proseguire solo nel caso di buoni ascolti. L’avvento delle serie cable ha profondamente mutato questi ritmi: il modello concepito da HBO alla fine degli anni ’90, in particolare, prevedeva contratti di sviluppo per un’intera stagione da tredici episodi, da trasmettere settimanalmente nell’arco di tre mesi, senza interruzioni. In questo modo diventava più facile vedere nella stagione un’unità coesa, tanto per gli sceneggiatori quanto per il pubblico. Il modello HBO è diventato la regola per le serie cable, si è diffuso parzialmente anche sui network ed è stato adottato dallo streaming, che aggiunge la simultaneità di pubblicazione di tutti gli episodi.
Questo cambiamento ha portato la televisione a riavvicinarsi al racconto unitario: limited series concepite come «film di tredici ore» – così Nicholas Refn amava definire Too Old To Die Young –; serie antologiche su base stagionale come American Horror Story o Fargo, oggetti prima sconosciuti. Non è, tuttavia, l’unico sviluppo possibile: in molti casi, anche a dispetto della pubblicazione simultanea e del possibile binge, l’articolazione del racconto è dominata dal ritmo episodico, si nutre di segmenti, ellissi, ripetizione e variazione, rifiutando la serializzazione perfetta ma allo stesso tempo abbracciando la stagione come unità di significazione chiusa. I May Destroy You è un esempio magnificamente riuscito di questa seconda possibilità.
Riferimenti bibliografici
O. Hankivsky, Intersectionality 101, Institute for Intersectionality Research & Policy, online 2014.
P. Hill Collins, Black Feminist Thought: Knowledge, Consciousness, and the Politics of Empowerment, Routledge, London and New York 2000.
E. Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009.
S. O’Sullivan, Broken on Purpose: Poetry, Serial Television, and the Season, in Storyworlds: A Journal of Narrative Studies, vol. 2, University of Nebraska Press, Lincoln 2010.
G. Rossini, Mad Men e la nostalgia, in Contemporanea. Rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione, vol. 10, Accademia editoriale, Pisa-Roma 2012.
I May Destroy You. Ideatore: Michaela Coel; interpreti: Michaela Coel, Weruche Opia, Paapa Essiedu; produzione: Various Artists Limited, FALKNA Productions; origine: Regno Unito, Stati Uniti; anno: 2020.