I fratelli Sisters di Jacques Audiard è un film che non può essere affrontato senza una riflessione sul revival del genere western. Questo revival senza dubbio pesca nelle acque profonde del nostro immaginario. Il rischio, però, è quello di scadere nel kitsch, ossia nell’usura di un valore estetico già acquisito dal pubblico. Tuttavia nel caso del western vige la consapevolezza, almeno negli autori più avvertiti, che non vi si torna se non per raccontare la fine del West. Non a caso si tratta di film che parlano di “sconfitti”. È il caso  anche de Il Grinta (2010) dei fratelli Coen. In entrambi i film la figura dello sconfitto – ne I fratelli Sisters è Charlie Sisters: un sempre bravissimo Joaquin Phoenix – finisce per assumere su di sé il senso del declino attraverso l’immagine della menomazione fisica. Ma la cosa è vera anche per chi non è in senso stretto sconfitto, offeso nel corpo, menomato della sua ragion d’essere.

Nel film di Audiard, l’altro fratello – Eli, l’altrettanto bravo e convincente John C. Reilly – nel corso del film passa dall’essere il subalterno, il Sancho Panza dalla saggezza contadina e dalla invincibile timidezza (pur essendo lui il maggiore tra i due fratelli), a essere colui che deve prendere in mano la situazione nel momento della crisi, il vero capo naturale della banda. Eppure anche lui è uno sconfitto: non perché perda la sfida con i suoi demoni interiori (la violenza del padre) e con l’assunzione di responsabilità di fronte al male che avanza, sfida che invece vince. Ma perché la sua decisione è quella di chiudere i conti con il West, tornando al luogo d’origine: la fattoria della madre. In questo senso Reilly è gemello del protagonista di Appaloosa (2008) di Ed Harris, film che, attraverso una violenza che trae origine dal mondo del West, deve imporre una legge che non solo riporta l’ordine in città, ma elimina la logica stessa di quel mondo.

Il punto, mi pare, è esattamente questo: lo sconfitto è tale non perché perde la sua sfida personale, ma perché prende su di sé il compito di rappresentare simbolicamente la fine di un mondo. La mia affermazione va precisata: non voglio dire che, in ogni tempo e in ogni luogo, si devono (o si sarebbero dovuti fare) solo film sulla fine del West. Voglio dire che dopo Sergio Leone si possono fare solo film sulla fine del West. Meglio ancora: dopo C’era una volta il West, film che esce significativamente nel 1968, non è possibile pensare un western che non rifletta o sulla condizione “fiabesca” di questo genere o sulla sua “storicizzazione”, ossia sul modo di rileggere la storia (americana e occidentale) attraverso questo filtro. Detto in termini più semplici e diretti, l’orizzonte dei valori fondamentali a cui ci ispiriamo e che ci rappresentano non può più essere rappresentato da un epos mitologico.

L’idea che fa da sfondo al revival del genere western, film di Audiard compreso, è che non possiamo più accostarci a quella che è stata una delle mitologie fondative di Hollywood con la credenza ingenua nella forza autonoma del suo epos: quest’ultimo, piuttosto, si giustifica in rapporto all’idea che il West o è finito o addirittura non è mai esistito come fatto storico nella forme in cui ci è stato raccontato dal cinema e prima ancora dalla letteratura. Esitevano in realtà la corsa all’oro, la colonizzazione della West Coast, lo sterminio sistematico degli indiani, lo sviluppo di un mercato interno tale da favorire la crescita esponenziale dell’industria nazionale. Mi pare che il film di Audiard scelga quasi implicitamente questa seconda linea, che è poi più radicale e meno rassicurante, quella infine più in linea con il cinema di Leone.

Si tratta innanzitutto di una scelta sensoriale ben precisa, che sembra in qualche modo ispirata al “sensorialità” esasperata di Revenant (2015) di Iñárritu: ne I fratelli Sisters sentiamo, infatti, gli spari delle pistole come non li abbiamo mai sentiti prima. Non sono i rumori vibranti delle grandi epopee western, film di Leone compresi. Sono spari secchi, meccanici, fumosi. Sono spari che brillano nella notte come un incontro di pugilato all’antica: un colpo a turno per parte, fino a che non ne sopravvive uno solo. Non richiedono una favolosa precisione di mira, una velocità di riflessi sovrumana: basta qui il buon senso dell’onesto stratega di un’imboscata. Questi pistoleri sono semplici briganti, ma potrebbero benissimo essere soldati in trincea o dietro una barricata.

C’è poi la questione dell’immaginario americano che gli stessi protagonisti del film incontrano nel corso della loro missione omicida. Cosa succede in fondo quando, alla ricerca dei due uomini da uccidere, i fratelli Sisters arrivano a San Francisco? Trovano già l’America del futuro: la grande città del divertimento e del consumismo di massa nella California – in nuce già multietnica e liberal – che sarà di Hollywood, Los Angeles e oggi della Silicon Valley. Trovano camere d’albergo con il gabinetto privato e l’acqua corrente e ristoranti di lusso che servono vino rosso. E in fondo chi sono i due uomini che devono uccidere? Un inventore, Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), che ha tutti i tratti dell’immigrato mitteleuropeo di prima o seconda generazione (perdipiù socialista utopista), e il giovane e ricco esponente della East Coast, John Morris (Jake Gyllenhaal), in fuga dagli agi di una Washington già troppo europea, alla ricerca della vera America selvaggia.

Insomma, i fratelli Sisters incontrano una strana coppia formata da due figure idealtipiche: un progenitore dei cospiratori rossi, che negli anni venti e trenta del Novecento saranno l’incubo dei conservatori americani, perché accusati di portare dall’Europa il “morbo” del socialismo e del comunismo, intriso di un insieme di scienza e utopia; e un epigono di Thoreau, un figlio dell’America puritana che cerca un nuovo incontro la natura incontaminata. Questi due uomini sono uniti in un’alleanza che in seguito si ripeterà raramente nella storia americana e sarà comunque effimera.

I fratelli Sisters restano affascinati dalla coppia e dal loro progetto di usare il ritrovato miracoloso per trovare l’oro allo scopo di fondare una comune egualitaria in Texas, al punto di abbandonare la missione affidata da loro dal loro capo, il Commodoro: ucciderli e impadronirsi della formula “magica” per l’oro. Ma sarà l’inizio dei loro guai, da cui usciranno sconfitti solo per fare ritorno nell’America delle fattorie da cui sono venuti. E che nel giro di un secolo si trasformerà da mondo rurale a terra delle pompe di benzina e dei centri commerciali. I fratelli Sisters ci racconta, allora, anche l’inizio di un’alleanza – piena di malintesi e di delusioni – tra questa America profonda e il sogno che l’ha stravolta: la ricerca di una ricchezza e di una felicità letteralmente senza confini, legate cioè al mito di una frontiera sempre da superare.

Riferimenti bibliografici
H. Broch, Il Kitsch, Einaudi, Torino 1990.
U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964.
C. Uva, Sergio Leone: il cinema come favola politica, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2013.

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