Nel suo progetto identitario e nazionale la Francia ha assegnato un ruolo privilegiato alla storia. La Francia moderna si è sempre rappresentata come una costruzione storica, il prodotto di una complessa, millenaria evoluzione. Altre nazioni, come la Germania, hanno scelto opzioni etniche e naturalistiche. Altre ancora, gli Stati Uniti, ad esempio, non hanno ritenuto la storia indispensabile e la nazione è sorta da un atto di volontà, qui ed ora: We, the People. Una relazione così stretta con la storia non può però che essere una relazione tempestosa, in un equilibrio instabile e continuamente rinegoziato fra memoria e oblio. Perché «l’oblio, e dirò anche l’errore storico è un fattore essenziale per la creazione di una nazione» (Renan 1882, p. 17).

È per questo che in Francia gli anniversari delle grandi svolte storiche sono momenti particolarmente delicati e controversi, terreno di scontro e la posta in gioco di interpretazioni alternative. Momenti di ridefinizione di un’identità che, proprio perché pensata essenzialmente come storica, non può che essere continuamente ridefinita. In uno dei momenti più drammatici della storia francese, la Strana sconfitta del ’40, Marc Bloch aveva indicato una possibile soluzione, ossia che ogni cittadino francese si riconoscesse nella totalità della storia della Grande Nazione, sia nell’Unzione di Clodoveo che nella Festa della Federazione, sia nella “continuità” della tradizione monarchica che nella “lacerazione” della Rivoluzione.

La soluzione di Bloch non sempre si è dimostrata praticabile. Tra le fratture di più difficile ricomposizione, fra le memorie più refrattarie a diventare “memorie condivise”, oltre a quella di Vichy, vi è certamente quella della Comune. Si potrebbe dire che essere divisive è il destino delle rivoluzioni. È vero, ma dopotutto in Francia anche i più moderati hanno finito, se non per riconoscersi nella, quanto meno per venire a patti con, l’eredità delle rivoluzioni del 1789, del 1830 e del 1848, riconoscendo in esse delle tappe fondative della modernità francese (e perciò universale) e del suo carattere democratico. Il Tricolore e la Marsigliese sono oggi di casa anche alle manifestazioni del Rassemblement National.

Da questa rassicurante galleria degli antenati, la Comune è rimasta invece, come si diceva, esclusa. Quando, al Consiglio municipale di Parigi è stata messa ai voti la proposta di sovvenzione all’associazione degli Amici della Comune per le celebrazioni, le differenze sono emerse evidenti. Da una parte c’è chi vede nella Comune «la più moderna delle rivoluzioni», dall’altra coloro che ritengono che commemorare la Comune significhi celebrare un’orgia di distruzioni e di atrocità.

E divisiva la Comune lo è stata fin da subito. Tra i suoi più accaniti avversari ritroviamo molte figure di primo piano della cultura francese dell’epoca. L’ostilità di Flaubert in fondo non sorprende: «Il popolo è un eterno bambino. Odio la democrazia […] L’unica soluzione sarebbe di farla finita con il suffragio universale, una vergogna per lo spirito umano. L’istruzione obbligatoria e gratuita non ha fatto che moltiplicare il numero degli imbecilli» (lettera a George Sand). Meno prevedibile è la cupa ferocia di Zola, esponente della gauche repubblicana, eroe dell’Affaire Dreyfus: «[…] questi banditi appesteranno la città con i loro cadaveri. Anche con la loro decomposizione questi miserabili troveranno il modo di nuocere» (articolo ne “Le semaphore de Marseilles”, primavera 1871). La Comune ha portato a termine la rottura fra gran parte dell’intellighenzia, non solo quella conservatrice, ma anche quella democratica, e le classes travailleuses et dangereuses che si era delineata nel 1848: «Occorre combattere questa deplorevole rivoluzione» – scrive Augustin Thierry – «Le circostanze attuali hanno sconvolto le mie idee sul passato e, a maggior ragione, sul futuro. Ho perduto la mia fede nella storia ed anche, cosa che non avrei mai pensato possibile, la mia fede politica».

A differenza di Thierry, scomparso nel 1856, Michelet, La Commune ha potuto vederla e la sua è una reazione di orrore e disgusto per lo scatenarsi del «mostro sociale che abbiamo portato dentro di noi». Eppure era stata una rivoluzione, quella del 1830, che aveva rivelato il senso profondo della storia francese, e la sua unità e indivisibilità. Ma Michelet, Flaubert e Zola, e tanti altri capivano, con infallibile istinto di classe, potremmo dire usando una terminologia desueta, che La Commune non era più la loro rivoluzione ma qualcosa di inedito: «Nella sua essenza la Comune fu la prima grande battaglia campale tra il lavoro e il Capitale. Ed è proprio per questo che la Comune è stata vinta e che, vinta, è stata sgozzata» (Jaurés 2018, p. 2348).

Almeno nei suoi primi momenti la Comune aveva cercato di riallacciarsi alla tradizione rivoluzionaria liberal-democratica, come risulta evidente anche dalla lettura dei documenti raccolti da Goffredo Fofi nel recente I giorni della Comune (2021). Il lessico politico è inizialmente ancora quello della tradizione democratica dell’’89: l’appello ai cittadini, all’unità della nazione, il richiamo alla virtù, all’onestà e alla rettitudine. La lotta è ancora quella del popolo nella sua totalità, «il grande popolo dell’89», formato dai «cittadini di ogni classe e di ogni ceto» (Vallés, Le cri du peuple, 22 marzo 1871) contro una piccola cricca di parassiti e traditori. È questa l’aria di famiglia di cui si diceva. Ma ben presto (durante le rivoluzioni il tempo accelera) emerge con nettezza la consapevolezza che il mondo del 1871 è ormai lontanissimo da quello del 1789:

«[…] a fianco dei contadini una classe si è formata, quella degli operai della città. Con il secolo è nata una forza, l’industria dei grandi capitali […] L’artigiano non esiste più, la piccola borghesia si estingue; di fronte a milioni di miserabili si erge questa terribile Bastiglia all’ombra della quale essi vegetano intristiti. Ebbene, questi proletari nati con il secolo, prodigiosamente accresciuti dopo il 1830, accumulati nei centri, alla mercé degli alti baroni, servi del capitale, servi dell’industria, come i servi contadini hanno fatto la rivoluzione nell’89, domandano a loro volta di fare la loro rivoluzione sociale» (Lissagaray, L’Action, 9 aprile).

Quella della Comune non è più la rivoluzione dei plebei delle città e dei contadini per l’uguaglianza politica e il possesso della terra. È (anche) la rivoluzione degli operai per i diritti sociali e l’uguaglianza. Le rivoluzioni del ’98, del ’30 e del ’48 erano ancora rivoluzioni «del mondo che abbiamo perduto». La Comune è una rivoluzione che nasce (quasi) tutta all’interno del nuovo mondo creato dalla Rivoluzione industriale. La prima rivoluzione della modernità.

Proprio per questo la Comune resiste tuttora ad ogni pantéonisation, ed è buon segno. La Comune faticherà ad ottenere sovvenzioni pubbliche per le celebrazioni ma ciò significa che «suscita ancora delle passioni», come riconosce anche Le Figaro, voce non sospettabile di eccessive simpatie comunarde e una memoria viva non può che essere conflittuale. Ed è viva perché la sua è una storia che, al di là della sconfitta, si apre sul futuro e non redige l’atto di morte di un Ancien Règime defunto.

Riferimenti bibliografici
G. Fofi, a cura di, I giorni della Comune. Parigi 1871, E/O, Roma 2021.
J. Jaurés, Historie socialiste de la Revolution française, Hachette livre, Paris 2018.
P. Lidsky, Les écrivains contre la Commune, La Dècouverte, Paris 2002.
M. Salvati, La Comune di Parigi. Marzo-maggio 1871, Edizioni dell’Asino, Roma 2021.

La Comune di Parigi, 18 marzo – 28 maggio 1871.

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