Un’occasione o la pazienza, un ricordo o la memoria, una persona o la vita stessa: l’esistenza umana è un susseguirsi di perdite – più o meno gravi e incisive, più o meno rapide e necessarie – che servono tutte a preservare uno stato di equilibrio tra ciò che accade nel mondo esterno e ciò che ciascuno di noi è in grado di accogliere dentro il proprio sentire, cercando di volta in volta una possibile forma di mediazione tra il caso, che spesso porta a subire una privazione involontaria, e la scelta personale, che a volte porta in piena coscienza a fare a meno di qualcosa o di qualcuno. A eccezione di ciò che sparisce e si può materialmente rimpiazzare (si pensi, ad esempio, al classico mazzo di chiavi perso), non sono tanto l’oggetto o il soggetto dello smarrimento a costituire motivo di tristezza o dolore, piuttosto l’opportunità di pensarsi ancora nella propria vita a prescindere da quanto accidentalmente si perde (come nel caso della morte di una persona cara) o, in alternativa, colpevolmente si decide di lasciare andare (come nel caso di una scelta che si ritiene necessaria). Sta tutto qui il nodo di un’esistenza che si vuole sempre aperta al mondo, in un processo di addizione e sottrazione senza soluzione di continuità. Ma che cosa vuol dire perdere qualcosa?
A tracciare una possibile risposta è il passo del romanzo Tar Baby (1981) di Toni Morrison, che Charlie Kaufman pone in apertura del suo ultimo lavoro, How to Shoot a Ghost.
In un certo momento della vita, la bellezza del mondo diventa sufficiente. Non c’è bisogno di fotografarla, dipingerla o ricordarla. È sufficiente così. Non è necessario conservarne traccia e non è necessario condividerla o parlarne con qualcuno. Quando accade questo – questo lasciare andare –, significa che si è capaci di farlo.
Stando a quanto appena letto, esisterebbe quindi un momento apicale di cui si ha la possibilità di fare esperienza quando si raggiunge una sorta saturazione o, ancora, quando si riesce ad attraversare quella soglia oltre la quale non si avverte più il bisogno di trasformare la bellezza in qualcosa che si può ri-vedere o a cui si può ri-pensare. Oltre la necessità di trasformare il mondo in traccia, resta soltanto la vita che scorre senza l’urgenza di costruirne una narrazione per se stessi o per gli altri: vivere è già abbastanza e questa si rivela una consapevolezza salvifica perché, in fondo, quel che non si ricorda, non si può più nemmeno perdere. Il portato filosofico di questa posizione potrebbe sollevare una discussione intorno a questioni che vanno dalla rappresentazione al linguaggio, fino a lambire i temi dell’esperienza e del tempo, ma quanto qui è più funzionale osservare è il modo in cui questa complessità sia stata ugualmente articolata da Kaufman nel suo ultimo lavoro attraverso la vicenda di due personaggi, le cui rispettive storie vengono raccontate dalla voce di Eva H.D. (autrice, tra altri testi, della poesia Bonedog, già menzionata nell’adattamento di Kaufman del romanzo Sto pensando di finirla qui di Iain Reid).
Le esistenze dei due personaggi – la fotografa Anthi (Jessie Buckley) e il traduttore Rateb (Josef Akiki) – sono accomunate dall’accadere, quasi contemporaneo, di uno stesso destino di morte. Dunque, l’incontro tra i due non avviene in vita ma nello spazio liminale in cui è possibile tracciare una linea definitiva tra ciò che un tempo è stato e non potrà d’ora in poi più essere. Camminando insieme per le strade di Atene, lei con la macchina fotografica tra le mani e lui con la testa ancora ai suoi libri (come il racconto della peste di Tucidide o il più recente To psema di Zōrz Sarē), i due personaggi riattivano il significato della flânerie quale possibile modalità conoscitiva di un mondo in cui i loro corpi si muovono senza essere visti. In questo senso, mantenendo rispettivamente il contatto con la fotografia e con la narrazione, Anthi e Rateb attraversano la memoria collettiva di una città in cui sotto a ogni pietra è conservato il ricordo di un corpo che ha vissuto, e che bisogna saper dimenticare per poter proseguire: sospesa ogni dimensione temporale possibile, la coesistenza tra passato, presente e futuro si fa evidente nella scelta di Kaufman di inserire filmati d’archivio di varia natura nel suo film, mostrando così la continuità circolare di una vita comune che, secondo consuetudine irrevocabile, inizia e finisce.
Anche per questa irreversibilità, più volte, nel film si insiste sul fatto che “unbelonging is the hometown”, che le nostre vite sono scritte nell’acqua (e nell’acqua scorrono), che l’esistenza è un tessuto e che, come ogni tessuto, può strapparsi – o essere strappato – per dare spazio a sempre nuove possibilità. Ripercorrendo così il senso delle loro vite ormai concluse, Anthi (il cui nome significa fiore) e Rateb (il cui nome, invece, rimanda a qualcosa di stabile e affidabile) si chiedono l’un l’altra che cosa stanno pensando, che cosa vogliono e, soprattutto, che cosa vogliono ricordare, ma a nessuna di queste domande danno una risposta concreta perché il domandare è già una modalità di dirsi nel mondo. Nella città popolata al tempo di vivi e morti – seguendo la tradizione antica secondo cui restano in Terra le anime di coloro che hanno peccato senza essersene pentiti in tempo –, quanto i due sperimentano è proprio il senso della distanza dall’esperienza presente e dell’impossibilità di rimediare al passato: non c’è nessun modo di fotografare un fantasma e non c’è nessun modo di riprenderlo. Soltanto loro stessi conservano il beneficio di guardarsi reciprocamente e di osservare gli altri fantasmi che, come loro, vivono la stessa condizione di stasi.
Seguendo la polisemia del verbo inglese to shoot, i gesti del fotografare e del riprendere avrebbero qualcosa in comune anche con quelli del fucilare e del cacciare, quasi a voler indicare che “fissare” qualcuno o qualcosa in un’immagine significa anche volerne la morte. Chiedendosi il “come” senza riuscire a compiere il gesto fino in fondo, Anthi e Rateb imparano ad abitare il mondo, una seconda volta, facendo esperienza del lasciar andare. Nella sospensione del tempo e nell’abbandono del mondo, si attiva così un duplice movimento in cui l’attraversamento dello spazio visivo – compiuto dai personaggi – è complementare all’affermazione di una dimensione esclusivamente sonora – la voce di Eva H.D. – che rende How to Shoot a Ghost un terreno di incontro tra cinema, filosofia e letteratura. Di questo terreno, Kaufman è tra i più originali interpreti, grazie alla sua capacità di leggere il reale come se fosse un libro, da leggere e da dimenticare subito dopo. Come se fosse un film, da guardare e poi imparare a lasciar andare fuori dalla memoria in quel disallineamento costante della vita.
Riferimenti bibliografici
T. Morrison, Tar Baby, Alfred A. Knopf Inc., New York 1981.
How to Shoot a Ghost. Regia: Charlie Kaufman; sceneggiatura: Eva H.D.; fotografia: Michał Dymek; montaggio: Robert Frazen, Jon Daniel; interpreti: Jessie Buckley, Josef Akiki; produzione: Unmade (Halsey, Anthony Li, Avan Jogia), Soft Focus Films (Isabelle Deluce), Monarch Kaleidoscope (Emily McCann Lesser), Green Olive Films, Kanopy in associazione con Nightjar Films, Liaison Pictures con il supporto di Onassis Stegi con la partecipazione di Athens Film Office, Municipality of Athens; origine: Stati Uniti d’America; durata: 27′; anno: 2025.