Kim: Puoi smettere di filmare?
Marusya: Perché?
Kim: Per aiutare.
Marusya: Posso aiutare mentre filmo.
Quello che hanno insegnato i grandi autori sovietici, Dziga Vertov su tutti, è che il cinema politico non significa “trasmettere un messaggio”. Per quello basta l’ufficio postale, direbbe Billy Wilder. Fare cinema politico vuol dire in primo luogo avere un’idea politica di immagine, avere un’idea di che cosa si vuole mostrare e da che punto di vista si vuole raccontare. Il cinema politico non vuole coinvolgere, non vuole illudere che lo spazio che abitiamo sia il mondo–in–comune, lo spazio nel quale ognuno possa ritrovare naturaliter la propria sfera d’appartenenza, la propria memoria e il proprio progetto d’esistenza. Vuole insegnare a riconoscere piuttosto le modalità con le quali delineiamo un mondo–in–comune. In alcuni casi, ci vuole aiutare a costruirlo.
Era la grande scommessa teorica del Kinoglaz di Vertov, un universo di cine-operatori e cine-montatori, di “giovani pionieri” in grado di documentare il processo di costruzione del comunismo, mettendo appunto in comune le proprie capacità, documentando e rielaborando/rimontando ciò che era man mano registrato su pellicola. Il presupposto ideologico che muoveva Vertov, ossia l’unità di classe dei kinoki, degli occhi che decifrano in chiave comunista il mondo, è oramai svanito. Ma quelle difficoltà tecniche che un secolo fa apparivano insormontabili, sono oggi superabili con competenze digitali minime. Quelle pesanti apparecchiature degli anni Venti del secolo scorso sono ora diventate quanto mai leggere, fino a comprimersi a volte in uno smartphone. Rimane però il nodo fondamentale: avere un’idea di che cosa si vuole raccontare e da quale punto di vista.
È quello che mostra di sapere in How to save a Dead Friend (2022). Un film di Marusya Syroechkovskaya, su materiale registrato dalla stessa autrice e da Kim Morev e montato da Qutaiba Barhamji. E, come si sottolinea nei credits nel sito del film on line, senza alcuna forma di finanziamento da parte del governo russo. La giovane Marusya Syroechkovskaja inizia a registrare filmati video sulla realtà giovanile che la circonda dal 2005, dall’età di 16 anni. È costantemente in preda a pensieri di suicidio e, quando inizia a filmare, crede che quello sarà il suo ultimo anno di vita. Marusya è estranea a qualsiasi comunità, o ancor meglio si riconosce soltanto nella comunità di quei giovani come lei che rifiutano nichilisticamente qualsiasi messaggio, qualsiasi valore condiviso. Si aggrappa a quella musica rock proveniente dall’Occidente, dai Joy Division di Ian Curtis ai Nirvana di Kurt Cobain, entrambi morti suicidi poco più che ventenni.
Come ai tempi del Disgelo, lo sguardo verso Occidente segue un tempo asincrono, si appassiona a idoli di generazioni precedenti, ma tale asincronia significa ribadire una tensione sotterranea per delle rockstar che hanno rifiutato, fino all’autodistruzione, proprio ogni tipo di culto di sé, ogni idolatria; quell’idolatria su cui poggia a sua volta ogni forma di propaganda che, ciclicamente, a ogni festa di capodanno, vediamo riecheggiare nei discorsi dei presidenti della Federazione Russa in Tv. Dietro la storia di un’adolescente e delle sue pulsioni di suicidio, si apre perciò quella che potrebbe apparire nelle prime battute del film come una semplice storia d’amore. Una storia come tutta e come nessuna, in cui l’individualità irripetibile di un singolo si riconosce finalmente in un altro volto, in un altro corpo, anch’esso estraneo a ogni mondo–in–comune. Entrambi, Marusya e Kim, testimoniano con apparecchi diversi il crescere della propria storia e, al contempo, quasi incidentalmente, il crescere dei gradi di definizione delle immagini riproducibili da smartphone o piccole telecamere.
Si intrecciano due fili distinti e fino ad allora senza direzione: Marusya e Kim costruiscono l’unità minima di una comunità, una famiglia, a cui si aggiungono presto alcuni cuccioli di gatto, verso i quali si riversano la dolcezza e la tenerezza di Kim. Nelle pieghe del racconto, emerge la spinta autodistruttiva di molti dei propri amici, spesso scivolati nella tossicodipendenza. Basterebbe già questo, questo sguardo puntato sul mondo giovanile e sui suoi tormenti, così simili a quelli di tanti giovani occidentali (è citato esplicitamente il motto di Trainspotting, Born sleepy, tatuato sulla schiena di Kim), per smontare la propaganda di una Russia altra rispetto all’Occidente nel proprio universo valoriale.
I discorsi di capodanno di Putin e Medvedev scandiscono il fluire del tempo, fanno da sottofondo, quasi da rumore bianco alle cene di Marusya e dei suoi cari; sono l’immagine sempre uguale a sé stessa, la riproduzione indifferente degli stessi slogan, dalla celebrazione della Madre Russia all’augurio di un futuro colmo di gioia e prosperità. Quanto più Marusya mescola i gradi di definizione delle immagini, i tagli delle inquadrature, la saturazione dei colori, mostrando la “potenza” della tecnologia nella sua capacità di essere multiforme e di testimoniare una traccia di verità anche con poco, tanto più la tecnologia del potere appare uniforme, eterna riproduzione del già detto.
Progressivamente il quadro si allarga: i due amanti, per un breve periodo marito e moglie, trovano in quella famiglia che stanno costruendo il luogo nel quale provare a confrontarsi con i propri traumi. Marusya ricorda il silenzio dei genitori rispetto a qualsiasi argomento che potesse essere elemento di divisione, tanto da ignorare anche il motivo del loro divorzio. Kim torna più volte sul trauma della morte del proprio padre in tenera età, a cui ha dovuto assistito impotente, in quanto gli operatori dell’assistenza sanitaria non hanno creduto alla sua telefonata d’aiuto. Ma il modo di reagire alla vita asfittica in Russia prende due strade diverse. Marusya è più consapevole del valore testimoniale di quello che sta riprendendo, e aumentando tale consapevolezza cresce il suo impegno politico a sostegno delle sempre più difficili forme di opposizione al governo di Putin, mentre Kim, pur lusingato di essere pressoché sempre al centro delle riprese, scivola nella dipendenza dalla droga e da un’assistenza sanitaria psichiatrica che rende un inferno burocratico il suo processo di cura.
Kim diventa sempre più infante, sempre più dipendente dagli adulti che lo devono accudire, in primo luogo la madre. Ma ancor più a fondo, Kim scivola sempre più nella menzogna. Lo sottolinea con lucidità Marusya, commentando una crisi di pianto del suo ex marito, insofferente per la propria degenza all’ospedale psichiatrico. Marusya rimarca che Kim sta recitando davanti alla telecamera. E, proseguendo quell’osservazione, potremmo aggiungere che chi recita davanti a quell’occhio meccanico, sta ingannando in primo luogo sé stesso, non riesce più a ritrovare la verità della propria esistenza. La morte a quel punto non può che essere prevedibile e del tutto casuale. Kim muore il 4 novembre 2016.
Il fratello di Kim, anch’esso tossicodipendente, aveva dichiarato a Marusya di non aver avuto paura di morire, ma che sarebbe stato difficile risorgere. La madre di Kim esprime la propria fede ortodossa e dice al figlio che si rinasce tre volte, la prima alla nascita biologica, la seconda col battesimo e la terza dopo la morte biologica. Marusya commenta che la morte è digitale, quando la tua vita è pixelata e può essere ripetuta indefinitamente. E allora salvare una vita non è credere in qualche futuro, trascendente o immanente, in grado di risarcire la nostra sofferenza; è riuscire a rielaborare la memoria depositata in quel flusso di immagini; è riuscire a vedere dentro quel grigiore e uniformità derisa dalla commedia della Stagnazione, dentro quelle finestre tutte uguali dei condomini della periferia estrema di Mosca nella quale viveva Kim, lo splendore irripetibile di quel giovane, estraneo a tutta “la Federazione della depressione”, come Marusya chiama la Federazione russa, ma in grado di lasciare parole di attenzione e di dolcezza per l’amante e poi amica che non lo aveva abbandonato.
È riuscire a immaginare quella che sarebbe potuta essere una vita diversa, quella di un matrimonio con Kim che avrebbe dato seguito al suo sogno infantile di diventare un presidente, di diventare qualcuno come Alessandro Magno, e insieme crescere dei figli, aiutarli con i compiti di scuola, tenere vivo il bagliore di quel primo bacio datosi a un concerto rock. Cinema politico non è lanciare messaggi efficaci, che devono esibire la potenza di un discorso affermato come necessario, come privo di alternative, come sempre uguale, ma piuttosto mostrare le possibilità non realizzatesi e comunque esistenti.
Marusya cerca di salvare non soltanto lo splendore del suo primo amore e di un amico troppo fragile. Prova a salvare l’idea di un mondo–in–comune di un popolo, di una Russia che non ascolta i discorsi di Putin a capodanno.
How to save a Dead Friend. Regia: Marusya Syroechkovskaya; fotografia: Marusya Syroechkovskaya, Kirill Morev; montaggio: Qutaiba BarhamjiI; interpreti: Marusya Syroechkovskaya, Kirill Morev, Tatyana Moreva, Ekaterina Moreva, Andrey Pimonenko; produzione: Docs Vostok, Sisyfos Film; distribuzione: ZaLab; origine: Svezia, Norvegia, Francia, Germania; durata: 103′; anno: 2022.