Un montaggio rapido, alternando il filmato di un research tape appartenente al Dipartimento di Psichiatria e Psicoterapia dell’Università di Vienna a un disturbo cromatico, introduce la protagonista del film, Pia (Luisa-Céline Gaffro), intervistata da una voce fuori campo: al rumore di tracciamento, accompagnato dal suo sintomo visivo, delle bande di rumore, si intervallano le voci dialoganti dell’intervistata e dell’intervistatore.  

Un esordio promettente quello di Florian Pochlatko che, col suo How to be normal and the oddness of the other world (2025), presentato al 75° Festival del cinema di Berlino nella sezione Perspectives, mescola fantascienza, horror e commedia, tentando di far coesistere la satira umoristica alla intima narrazione degli stati interiori dei personaggi. Appena dimessa da una clinica psichiatrica, la ventiseienne Pia torna a vivere nella casa dei genitori, nella periferia di Vienna e, inciampando tra delusioni amorose, effetti avversi degli antipsicotici e stigmatizzazione sociale, cerca di restare al passo col mondo nel quale vive, sentendosi però spesso appartenente ad un altro.

In questo senso, risalendo all’etimologia latina del termine alienus, Pia è un essere alieno, cioè altro, diverso. Allo stesso tempo, la parola alieno, approfittando della polisemia sorta durante la sua evoluzione semantica, avvenuta in seguito all’avvento della letteratura e del cinema di fantascienza, è associata alla figura dell’extraterrestre: un essere proveniente da altri pianeti. Tali sfumature semantiche, ormai entrate a far parte del linguaggio comune, sono testimoniate dagli inserti fantascientifici che popolano il film: dal mostro che minaccia la città (metaforicamente impersonato da Pia), alle storie di pianeti lontani e di altri sistemi solari, fino alle ipotesi sulla presenza di extraterrestri e alla battaglia laser che la protagonista ingaggia col piccolo vicino di casa. Un film sulla salute mentale o, meglio, sull’immaginario dell’esperienza neurodiversa, che si tramuta facilmente in una space opera: la battaglia intergalattica è qui combattuta tra il mondo “occupato” dell’ adulto (i genitori di Pia tartassati dalle psicotiche e clownesche dinamiche aziendali) e il mondo “disponibile” dell’emerging adulthood, quella fase intermedia tra i diciotto e i ventinove anni, caratterizzata dalla ricerca di sé in rapporto all’altro.

Pia sperimenta perciò una mutazione, un cambiamento di pelle che collide conflittualmente col suo disturbo dissociativo: si moltiplicano i momenti di frammentazione e distorsione della realtà, aggravati dalla presenza di amnesie dissociative, stati di derealizzazione e di ipervigilanza.  Lo stile del film, assorbendo l’atmosfera dissociativa dell’esperienza di Pia, si accorda alla sua visione disconnessa del mondo, scombinando piani temporali e rappresentazioni  spaziali e intrecciando metanarrazioni a più linguaggi audiovisivi (dal videogioco,  al telegiornale ai social network).Emblematiche a proposito le prime sequenze citate in apertura, rappresentanti le interferenze di lettura dell’analogico, oppure le costanti variazioni di formati e aspect ratio corrispondenti alla cangiante situazione percettiva e affettiva della protagonista. Ad esempio, la crisi psicotica, provocata dalla sospensione arbitraria dei farmaci, non solo è registrata dai clienti del ristorante, ma pubblicata sul web come contenuto effimero (stories), trasmissione in tempo reale (live streaming) e condivisione di contenuti creati da altri utenti (repost).

In effetti, la rappresentazione della “follia” si è costitutivamente intrecciata ad una mediazione tecnosociale – doveroso citare in principio l’articolo dello psicoanalista Viktor Tausk, Sulla genesi della “macchina influenzante” nella schizofrenia (1919) – e il film di Pochlatko si impegna proprio nel narrarne quella contemporanea. Quando la protagonista Pia guarda un video su come diagnosticarsi l’ADHD, Pochlatko propone una prospettiva critica su come, fornendo un’esperienza individualizzata e una connessione comunitaria con utenti affetti dallo stesso disturbo, i social network veicolino un’ impropria medicalizzazione autodiagnostica o una patologizzazione dell’esperienza umana  (cfr. Corzine, Roy 2024).

Colpisce invece come sia un’analogica striscia di celluloide, e non un archivio digitale, a conservare i momenti più emotivamente rilevanti della vita di Pia. La funzione membranacea e la deperibilità del materiale infiammabile della pellicola appaiono più prossimi ai processi alchemici, combinativi e impuri dell’esperienza terrestre. Si pensi alle immagini astratte delle forme di vita “animali”, commentate dalla madre di Pia nell’annuncio pubblicitario: esse ricordano le forme geometriche e animate dei film d’avanguardia degli anni venti e trenta del Novecento, i movimenti “inconsueti, misteriosi e innaturali” che Béla Balázs attribuiva alla piovra di Jean Painlevé. Il mondo naturale è descritto dalla voce della donna come aggressivo e irrazionale, parassitario e dunque da escludere, da relegare ai margini allo stesso modo della follia che deve essere debellata e controllata nelle sue manifestazioni virulente. Al contrario, Pochlatko, riflettendo sull’utilizzo molteplice e diversamente funzionale dei supporti analogici e digitali, delinea un’archeologia psichica dell’anomalia mentale che comunica l’affacciarsi di una trasformazione della nozione di identità, avvalorata dalla confusione diagnostica rispetto al disturbo di Pia.

Pertanto, How to be normal and the oddness of the other world, accettando la componente nomade e non incorporabile dell’esperienza del folle, opera «una virata dall’ontologia rigida dell’individualità fissa e stabile di enti e oggetti alla fluidità dei processi» (Perullo 2019, p. 33). Non casualmente, Pia si riferisce alla pelle come un’unica tessitura: la carne del mondo, con le parole di Merleau-Ponty, in cui corpi, cose e atmosfere sono tenuti insieme. Una membrana e una via d’accesso alla pluralità delle forme di vita terrestri ed extraterrestri: “Non c’era più pelle rimasta tra me e il mondo. Tutto è me. Gli alberi sulla strada e il meteo di ieri, sono me. E io non finisco da nessuna parte”.

Riferimenti bibliografici
A. Corzine, A. Roy, Inside the black mirror: current perspectives on the role of socialmedia in mental illness self‑diagnosis, in “Discover Psychology”, n. 4, vol. 1, 2024.
N. Perullo, Estetica ecologica. Percepire saggio, vivere corrispondente, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2019.

How to be normal and the oddness of the other world. Regia, sceneggiatura: Florian Pochlatko; fotografia: Adrian Bridon; montaggio: Julia Drack; musica: Rosa Anschütz; interpreti: Luisa-Céline Gaffron, Elke Winkens, Cornelius Obonya, Felix Pöchhacker, David Scheid; produzione: Golden Girls Filmproduktion & Filmservices; distribuzione: Alpha Violet; origine: Austria; durata: 102′; anno: 2025.

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