Il corpo frenetico e scattante di Sofia (Emma Mackey) domina molte delle inquadrature di Hot Milk, esordio alla regia di Rebecca Lenkiewicz, già nota sceneggiatrice di titoli imperniati su figure femminili di rilievo come Colette (2018) e She Said (2022).

Anche Hot Milk è ancora una volta una storia profondamente al femminile: un attraversamento intimo e profondo del rapporto di co-dipendenza e di amore/odio reciproco, che intreccia e soffoca le vite manchevoli e carenti di una madre e una figlia. Il ritratto di Sofia, infatti, è tracciato dando rilievo e centralità al suo ruolo di figlia, schiacciata dal peso di una madre ingombrante, Rose (Fiona Shaw), affetta da una malattia sconosciuta e inesorabile, che la costringe su una sedia a rotelle. Un’ultima opportunità di cura per Rose si profila sulle spiagge calde e assolate della Spagna, dove opera il dottor Gomez, i cui metodi apparentemente irrazionali e ascientifici portano a galla una sofferenza emotiva sepolta sotto la coltre spessa del silenzio.

È evidente la volontà di Lenkiewicz, da sempre legata alla dimensione della parola scritta, di raccontare la storia per immagini, sacrificando il logos a vantaggio della giustapposizione di concrezioni di natura puramente visuale: ogni inquadratura ingloba dei segni e li struttura in una disposizione interna che suggerisce e costruisce una piccola porzione di racconto. Ne è esempio, appunto, proprio la frequente giustapposizione di inquadrature del corpo in nervoso movimento di Sofia, di cui la macchina da presa segue l’incedere agile e rapido, e quelle del limpido mare spagnolo. Le prime sono, in genere, strette sul corpo della ragazza, restringono lo spazio circostante o lo riducono a puro sfondo simil-dipinto, rinchiudendola così in una sorta di gabbia, correlativo oggettivo del rapporto simbiotico e soffocante con la madre. Tale combinazione tra passo scattante e spazio ridotto induce anche nello spettatore una sensazione di chiusura e di nevrosi, portandolo a percepire uno schiacciamento. A queste inquadrature, tuttavia, fanno da contrappunto i nitidi e tersi paesaggi marittimi spagnoli, in cui il vagare incessante di Sofia trova apparente ristoro nella costruzione di un legame affettivo con Ingrid, enigmatica e sfuggente ragazza tedesca di cui Sofia si innamora.

Il mare, d’altro canto, è un referente dai significati molteplici e stratificati: è immagine di una libertà perennemente rincorsa da Sofia, ma è anche ritorno al ventre materno. L’acqua marina è liquido amniotico che avvolge il corpo affannato di Sofia e, che al contempo, lo aggredisce attraverso i frequenti attacchi delle meduse. In questo modo, Lenkiewicz ripropone l’ambivalenza del legame madre-figlia, una relazione di mutua consumazione, in cui la cura costante da parte della figlia impedisce qualsiasi possibilità di guarigione alla madre e in cui le pressanti necessità della madre, emblematizzate dalla continua richiesta di acqua, opprimono i bisogni della figlia.

La parentesi di vita in Spagna, tuttavia, sembra rappresentare per Sofia un punto di svolta, in cui paiono giocare un ruolo fondamentale proprio quelle meduse che infestano l’ambiente marino e che provocano, a livello epidermico, delle ferite brucianti che non sono altro che l’esternalizzazione del dolore intimo ed emotivo vissuto da Sofia. Nel prologo del romanzo di Deborah Levy, da cui è tratto il film di Lenkiewicz, la scrittrice dà voce alla stessa Sofia: «[…] In Spain jellyfish are called medusas. I thought the Medusa was a Greek goddess who became a monster after being cursed and that her powerful gaze turned anyone who looked into her eyes to stone» (Levy 2016, p. 9). La sovrapposizione tra le meduse che popolano le acque spagnole e la figura mitologica quale simbolo di auto-affermazione individuale femminile che ne deriva, dunque, appare naturale. Come scrive Hélène Cixous: «They riveted us between two horrifying myths: between the Medusa and the abyss. […] You only have to look at the Medusa straight on to see her. And she’s not deadly. She’s beautiful and she’s laughing» (1976, p. 885). In questo doloroso percorso di scoperta di sé, Sofia riesce a individuare e comprendere anche gli strappi nel tessuto emotivo della madre, e si scopre in grado di raccontare e direzionare la propria storia. A guidarla è in parte Ingrid, che ribadisce a Sofia teneramente la sua mostruosità, da intendere non come una condanna, ma come una forza liberatoria che le permette di conoscersi e comprendersi profondamente.

Una forza che esplode in alcune sequenze cruciali, in cui la tensione nervosa del corpo, sottoposta ad un processo di accumulazione costante, viene rilasciata attraverso gesti violenti, come quello di mandare in frantumi un piatto gettandolo ai piedi della sconcertata madre, la quale assume, a sua volta, consapevolezza, seppur non ancora piena, del percorso di evoluzione che la figlia sta attraversando.

Medusa, dunque, quale simbolo di riappropriazione della propria voce, del proprio sguardo, attraverso cui vedere, proiettare e narrare la propria storia. Una simile connotazione richiede il filtro di uno sguardo femminile, che intervenga a strutturare dal punto di vista visuale e narrativo la storia: «There was never any doubt that Hot Milk was a women’s story – in its origin and DNA through to its final form. From the 2016 novel’s author Deborah Levy through to film producers Christine Langan and Kate Glover and director Rebecca Lenkiewicz, the heart of the project had to be female». Una premessa indispensabile, che rispetta le fondamenta del monito di Cixous: «Woman must write woman» (1976, p. 877).

Attraverso la macchina da presa, Lenkiewicz scrive il corpo di Sofia e le restituisce le sue emozioni, l’accesso al proprio sé: «Write yourself. Your body must be heard. Only then will the immense resources of the unconscious spring forth. […] To write. An act which will not only “realize” the decensored relation of woman to her sexuality, to her womanly being, giving her access to her native strength; it will give her back her goods, her pleasures, her organs, her immense bodily territories which have been kept under seal» (ivi, p. 880). In questo modo, si pongono anche le premesse per una liberazione dall’ambivalente legame simbiotico con la madre, condensate nell’estremo gesto conclusivo: conscia, una volta per tutte, della reale natura del malessere di sua madre, Sofia la pone dinanzi a una scelta definitiva. La abbandona sulla sua sedia a rotelle, di notte, al centro di una strada buia.

L’ultima inquadratura non rivela la sorte della donna, la quale, impietrita, ripete di non essere in grado di muoversi autonomamente. Quello che ci viene mostrato, invece, è il volto della ragazza, che, voltandole le spalle, la rassicura sulla sua reale capacità di farlo. In quel gesto, nel suo distacco silenzioso, si avverte la fine di un legame soffocante. Forse, per la prima volta, è davvero libera.

Riferimenti bibliografici
H. Cixous, The Laugh of Medusa, in “Signs”, n. 4, 1976, pp. 875-893.
D. Levy, Hot Milk, Bloomsbury, New York 2016.

Hot Milk. Regia: Rebecca Lenkiewicz; sceneggiatura: Rebecca Lenkiewicz; fotografia: Christopher Blauvelt; montaggio: Mark Towns; musiche: Matthew Herbert; interpreti: Emma Mackey, Fiona Shaw, Vicky Krieps, Vincent Perez, Patsy Ferran; produzione: Bonnie Productions, Never Sleep Pictures, Heretic; origine: Regno Unito, Grecia; durata: 92′; anno: 2025.

Tags     Hélène Cixous, Medusa
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