hostiles western nativi indiani capocasale

È noto: la fondazione di un’identità nazionale-statale solida, nelle rappresentazioni datene nell’epos, vede spesso l’eliminazione dei corpi estranei, gruppi minoritari, diversità. Il mancato rispetto di confini che si vogliono netti e normati da un gruppo dominante esige l’esclusione, la punizione di chi prova a violarli, spesso l’uccisione e senza riguardo per comuni appartenenze sociali, familiari, etniche. È il tipo di conflitto che si trova per esempio nel racconto d’età imperiale della fondazione di Roma (Livio), che passa per un fratricidio, e che, soprattutto, forma il modello tipicamente tragico, pienamente assunto in quell’epos che è bazinianamente il “cinema americano per eccellenza”. Il western si produce in un impero percorso da un’altra narrazione, quella del meltin’ pot dove l’ostilità verso le differenze verrebbe meno a vantaggio dell’accettazione dell’eterogeneo. Hostiles, di Scott Cooper, presuppone le medesime narrazioni, che proprio nel caratterizzarsi come dualità conflittuale confermano in realtà la riconducibilità al modello unico del tragico, western e americano.

È precisamente il conflitto a cogliere il protagonista Joseph Blocker (Christian Bale), comandante dell’esercito, che ha affrontato e sterminato numerosi nativi indiani, e che prossimo al ritiro si vede affidare una missione che non gli somiglia: per ordine del governo, dovrà scortare dal New Messico al Montana il capo Cheyenne Falco Giallo (Wes Studi) e la sua famiglia dopo anni di detenzione. Alla spedizione che il comandante è costretto suo malgrado ad accettare, si unisce una donna, Rosalie (Rosamund Pike), la sola sopravvissuta al massacro della sua famiglia ad opera dei Comanches, nel prologo del film.

Che il conflitto di due, ostili e differenti, sia in realtà riconducibile all’unicità di un modello sembra già annunciato dall’esergo in apertura del film, dove l’essenza dell’anima americana è definita dura e assassina (hard, killer), ancora mai mescolatasi (never yet melted), e ogni eterogeneità si riduce a una durezza, chiusura identitaria. È una frase di David H. Lawrence, britannico (un altro impero) come lo Zangwill che diffuse l’espressione melting pot: due narrazioni – nessuna delle quali statunitense – la cui conflittualità a sua volta non ripete che il carattere unico del modello. Azione-reazione, infatti: la frontiera del New Messico contro la ferrovia in costruzione, la chiusura del confine contro l’Iron Horse che deve solcarli e connetterli, il massacro iniziale della famiglia compiuto dai comanches e subito dopo le torture inflitte a un nativo da Blocker e i suoi.

È significativo che entrambe le violenze si compiano sotto gli occhi dei familiari: Rosalie vede morire il marito e i figli, una donna indiana disperata guarda il suo uomo preso a lazo e trascinato dai cavalli dell’uomo bianco. Poco dopo, un commilitone ricorderà al protagonista l’esser stato un cruento, e, nella sua ottica, valoroso, massacratore di nativi. Il che è stato perché si sono visti, ancora, morire dei compagni, dello stesso esercito, della stessa etnia, degli amici. Ciò renderebbe Blocker conflittualmente (ancora) simile al nemico Falco Giallo, che ora deve proteggere, se anche il capo cheyenne ha visto morire i suoi per mano dell’altro. Lo scontro della vecchia epoca della frontiera deve dunque estinguersi nel riconoscimento di una vicinanza empatica nell’epoca della ferrovia: la donna sembra vedere nuova famiglia in quella cheyenne, o i nativi una figura materna in lei.

Parrebbe certamente un sentire moderno, aperto, che redimerebbe l’anima essenzialmente dura, assassina, non mescolatasi. E, forse, ancora necessario se proprio nel civilizzatissimo Occidente globale in cui sembravano più aperti i confini e liquide le frontiere, si minacciano (o si fanno) innalzamenti di muri. Che farebbero sembrare due continenti entrambi tragicamente vecchi allo stesso modo, quando si volevano più che moderni.

Eppure, l’aver visto le stesse cose, le stesse violenze su due diversi fronti, non implica di per sé necessariamente partecipazione a un sentire comune e condiviso che riconosce alterità e si apre all’eterogeneo. Restano due volti della vendetta, che è però sempre e comunque uno sguardo solo (One-Eyed Jacks?).

Infatti, nel film permane tutto il modello classico tragico: ne è spia ulteriore il fatto che la risoluzione del conflitto può passare solo per una qualche eliminazione o scomparsa, più che sciogliersi nel meltin’ pot (che pure c’è: il rapporto tra Rosalie e la famiglia adottiva-adottata dei nativi). Del resto, già l’Ethan di Sentieri selvaggi (1956), accettata l’ibrida Debbie e avendola comunque recuperata al gruppo wasp, doveva dissolversi al nero e uscire di scena. Inoltre, lo stesso film, come Hostiles, innescava conflitto ed epos (ancora di viaggio, odissea) a partire da un’incursione violenta di Comanches nella proprietà dei bianchi.

La citazione, già presente per quanto di segno diverso nel leoniano C’era una volta il West (1968) – scritto infatti anche dal cinéphile Bertolucci –, è qui invece, di suo, un vedere e ripetere il medesimo e non altro, un vedere allo stesso modo, cioè secondo il permanente modello del tragico, classico del western.

Una certa cristallizzazione e contrapposizione identitaria, una hardness dei caratteri dei personaggi, si accompagna a cambiamenti che potrebbero apparire repentini se accostati secondo i canonici parametri di crescita-maturazione-trasformazione attraverso i quali tanto cinema americano classico ha costruito le proprie storie dandole per realistiche.

Tuttavia, in molto cinema western (e altrove), vincono le leggende. Infatti, l’hardness del modello tragico-classico sembra incrinarsi, appena un po’, per l’improvviso insorgere di un sentire che è invece moderno. La solidarietà tra soldati bianchi e Cheyenne insorge nelle contingenze, dettata dalle necessità del caso che mette sul loro cammino volta a volta nemici riconosciuti comuni, siano bianchi o altri pellerossa. Una minuscola crepa di modernità, quindi, nello sguardo monolitico, classico, o arcaico e duro.

Che sia una visione dell’altro riconosciuta e partecipata come propria, o che sia invece, ancora, l’assimilazione dello sguardo dell’altro al proprio (e quindi ancora acculturazione e colonizzazione), permane comunque qui il modello unico tragico, al quale ogni dualità in conflitto è comunque in definitiva ricondotta. Compresa la tensione tra la ricerca di nuove leggende da stampare e nuovi modi di dire quelle classiche, innestando un po’ di coscienza moderna nella hardness. È la stessa tensione-ostilità con la quale in definitiva il film si misura, forse incerto se essere “western maggiorenne” abbandonando un monolitico schematismo dei caratteri, eppure ostile a un’apertura radicale, a fare meltin’ pot della propria forma. Al netto delle crepe moderne, l’anima americana è mescolanza o è dura. Delle due, l’una (“Print the Legend”, infatti, diceva Stoddard/James Stewart), come in ogni tragedia.

Riferimenti bibliografici
T. Kezich, Il western maggiorenne, in “Cinema”, n. 42 (1950), pp. 7-10.
J.-L- Rieupeyrout, Il western ovvero il cinema americano per eccellenza, Bologna, Cappelli, 1957.

Share