Ai mattinieri che si alzano presto nel fine settimana e si concedono il lusso proibito di accendere la televisione mentre fanno colazione sarà forse capitato di imbattersi in Cine34, il canale in chiaro di Mediaset dedicato al cinema italiano. Si tratta certamente di un gesto anacronistico, in un’epoca di fruizione on demand, in alta definizione e senza interruzioni pubblicitarie; tuttavia, chi avesse avuto questo ardire avrà potuto godersi gloriose commedie d’altri tempi come Mazzabubù… quante corna ci stanno quaggiù (1971) di Mariano Laurenti con Nadia Cassini alle 8.27, La minorenne (1974) di Silvio Amadio alle 7.07, con una diciannovenne Gloria Guida, o La ripetente fa l’occhietto al preside (1980), sempre di Laurenti, con Annamaria Rizzoli, alle 9.20. Tra stupore e curiosità, si sarà soffermato con una palpebra ancora socchiusa su quelle immagini slavate, confrontandole mentalmente con il sovraccarico di corpi nudi del presente. Un confronto che rende queste immagini goffamente ingenue, ma insieme terribilmente fuori posto: in effetti, non sono lontani i tempi in cui queste potevano essere fruite televisivamente solo in notturna, preservandone un certo carattere trasgressivo rispetto alla morale corrente, visto che almeno i primi due film sono tuttora vietati ai minori di 14 anni (quando uscirono ai minori di 18), mentre solo il terzo aveva già ottenuto il nulla osta all’epoca.

Ma è proprio nella congiuntura storica racchiusa dai tre film che inizia la decisiva trasformazione dei limiti dell’accettabile che ha cambiato radicalmente l’approccio italiano all’erotismo prima e alla pornografia poi. Homo eroticus. Cinema, identità maschile e società italiana nella rivista «Playmen» (1967-1978) di Gabriele Rigola (Rubbettino 2021) ne ricostruisce le linee principali, attraverso “Playmen. La rivista degli uomini”, periodico fondato dalla coppia Saro Balsamo-Adelina Tattilo nel 1967, che ha segnato culturalmente e socialmente un decennio cruciale nella seconda fase della via italiana alla modernizzazione. Una rivoluzione che aprirà la strada alla liberalizzazione della pornografia e delle sale a luci rosse sul territorio nazionale a partire dalla stagione 1978-1979 (ecco spiegato il perché della disproporzione tra i visti di censura dei tre film), di fatto segnando l’inizio del declino, lento ma inesorabile, della carta stampata di genere erotico.

I motivi per analizzare da vicino “Playmen” sono molteplici e, per molti versi, di notevole interesse, come del resto si evince anche da una recente mostra dedicata al periodico organizzata dal MACRO di Roma. Denunciando esplicitamente ambizioni culturali e coinvolgendo alcuni tra i nomi più significativi del tempo come Fernanda Pivano, Gideon Bachmann, Maurizio Costanzo, in dialogo tra gli altri con Jean-Paul Sartre o Pier Paolo Pasolini, la rivista è un «vero e proprio medium che diviene reagente dei sommovimenti della società» (Rigola 2021, p. 14) nei territori delle trasformazioni della sessualità e del costume, delle forme della mascolinità e delle rappresentazioni mediali nel quadro di una progressiva erotizzazione dell’immaginario sociale. Tre sono gli aspetti più rilevanti nelle analisi condotte da Rigola, che si situano a gradi diversi di originalità e che riguardano i tre ambiti appena menzionati.

Il primo concerne la stretta relazione tra sessualità e modernizzazione, della quale “Playmen” costituisce un tassello cruciale, benché mai precedentemente assunto a oggetto di studio in forma sistematica. Autorappresentandosi esplicitamente in termini di periodico culturale, il mensile inizia un’operazione di modellazione del suo pubblico su una linea di pensiero progressista attraverso la proposta convergente di nuovi modelli e ruoli femminili e nuovi comportamenti sociali. Iscrivendosi a pieno titolo in una storia della sessualità contemporanea, “Playmen” contribuisce a dare un diverso orientamento ai discorsi sui criteri normativi e sulle forme di disciplinamento del desiderio, aprendosi alla discorsivizzazione del desiderio femminile e omosessuale, pubblicando ritratti maschili (seppur molto sbilanciati per numero, rilievo ed esposizione rispetto a quelli femminili), sollecitando – soprattutto dalla metà degli anni Settanta – la plurivocità dei canoni di bellezza femminile. Uno spazio composito e plurale, almeno nelle intenzioni, che si fonda sull’inclusività (spesso più declamata che praticata, a dire il vero) come scelta politica.

Il secondo riguarda la possibilità di enucleare, attraverso “Playmen”, «una teoria italiana del maschile tra anni Sessanta e Settanta» (ivi, p. 53) che coinvolge i cambiamenti delle pratiche della mascolinità, l’autorappresentazione del maschile nella sfera in espansione dell’entertainment erotico e i modelli mediali del maschile in una prospettiva transmediale. Se la mascolinità è costitutivamente precaria, cioè soggetta a continue pratiche negoziali di contrattazione dei propri caratteri (tematica sulla quale la bibliografia, anche italiana o dedicata all’Italia, è in rapida crescita), la rivista diventa un dispositivo che intercetta, riflette e produce discorsi sull’identità maschile in forte transizione del periodo. A fianco di strategie tutto sommato conservatrici possono così coesistere inaspettati detour anti-eteronormativi che trovano via via uno spazio fisso sempre più ampio sulle pagine del periodico, sostenuti anche da quel luogo di negoziazione con il pubblico per antonomasia che è la posta dei lettori. Paradossalmente, argomenta Rigola, è dunque «l’identità maschile a essere oggetto e soggetto di sguardo» (ivi, p. 83), dato che le immagini di desiderio (i corpi femminili) e quelle di conformazione (i corpi maschili) finiscono per trovare zone di sovrapposizione, dando vita a configurazioni ibride delle geometrie del desiderio stesso che colgono piacevolmente di sorpresa gli stessi soggetti, come rendono conto le lettere indirizzate alla redazione.

Il terzo coincide con la riflessione sulla galassia transmediale che vede il cinema giocare un ruolo determinante in quanto «medium funzionale per tutti gli altri media», non solo dunque «elemento decisivo nella diffusione di immagini erotiche, ma […] soprattutto veicolo di discorsi, manifestazione privilegiata del cambiamento di immaginario in relazione a erotismo, esposizione del corpo, sessualità, rapporti di genere» (ivi, p. 29). Se i film sono anzitutto un enorme archivio di corpi nudi, da cui la rivista attinge attraverso il mero riciclo di fotogrammi o foto di scena, è anche vero che “Playmen” sviluppa da subito strategie più complesse per relazionarsi con il medium cinematografico, tanto d’autore quanto di genere. Il primo viene convocato sulle pagine del mensile sia per parlare di questioni relative alle trasformazioni della sessualità e dell’erotismo, sia rendendo conto della sua dimensione culturale (indipendentemente dalle tematiche affrontate), sia infine come sponda per perseguire una strategia editoriale oltre la nudità, offrendosi dunque «come termine di paragone, come termine di confronto, ma anche come elemento di comprensione e rielaborazione dei cambiamenti sociali e di fatti di cronaca». Il secondo costituisce invece un ideale prolungamento transmediale per quanto riguarda la diffusione delle immagini erotiche, contribuendo così alla definizione di un orizzonte iconografico comune dentro il mediascape del periodo, fatto di reciproci scambi e citazioni.

La questione del divismo occupa allora un ruolo centrale, riassumendo in un certo senso le direttrici prese sinora in esame. Le star (femminili ma anche maschili) sono dunque anzitutto corpi da esibire e da mostrare, ma sono anche figure che incarnano i nuovi problemi sociali relativi alla sessualità, all’erotismo e ai ruoli di genere, nonché modelli attraverso cui si sviluppano forme di rielaborazione delle identità maschili. Nel divismo si esercitano le pratiche di fidelizzazione del pubblico attraverso copertine e poster, ma anche lettere, giochi a premi, concorsi; nel divismo si coagulano gli intenti editoriali di modernizzazione per quanto riguarda i corpi e i ruoli sociali, attraverso un allargamento progressivo della proposta iconografica e lo sviluppo di una dimensione dialogica (vera o fittizia poco importa) con i lettori. Il corpo diventa così un «sismografo che registra le possibilità acquisite o i dibattiti dominanti nella società» (ivi, p. 163), con un ventaglio di alternative piuttosto ampio: Jane Birkin o Maria Grazia Buccella, Laura Gemser o Gloria Guida, Giorgio Albertazzi o Renato Pozzetto, ad esempio. Insomma, modelli polimorfi da miscelare a piacere.

Da questa prospettiva, le tre direttrici rintracciate dentro il mensile continuano a mostrare la loro stretta attualità dentro la cultura visuale del presente. Anzi, spingendoci oltre, la rivista costituisce uno dei centri nevralgici per una genealogia delle relazioni tra processi di soggettivazione e discorsi della sessualità attraverso i media, i cui effetti giungono tangibili sino ai nostri giorni. Lo spettatore assonnato della domenica mattina forse non riterrà opportuno sorseggiare il primo caffè con le tette di Edwige Fenech o le cosce di Laura Antonelli davanti agli occhi; ma qualora decidesse di farlo, potrebbe certo misurare la distanza delle condizioni di visibilità degli oggetti del desiderio rispetto a vent’anni fa, magari rivolgendo un pensiero a “Playmen”, che di quel percorso di modernizzazione dei costumi sessuali (pur squilibrato e ancora evidentemente incompleto) è stato uno dei primi artefici.

Gabriele Rigola, Homo eroticus. Cinema, identità maschile e società italiana nella rivista «Playmen» (1967-1978), Rubbettino, Soveria Mannelli 2021.

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