I registi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer ci provano in più di un’occasione a far diventare Hometown un altro film, più esattamente un film doloroso sul dolore dell’invasione nazista, della deportazione degli ebrei, dei campi di concentramento, raccontato da chi quella parentesi storica l’ha vissuta in prima persona, anche se bambino. Ci provano nel modo più semplice: una pausa nel racconto, una musica che tocca le corde giuste, un po’ di ralenti su volti e mani. Ma Roman Polanski, regista, e Ryszard Horowitz, fotografo, amici fin dall’infanzia nel ghetto di Cracovia creato all’indomani della conquista della Polonia da parte dei tedeschi, resistono, senza troppo sforzo, e se la ridono, dall’inizio alla fine di questo meraviglioso documentario on the road (ma lento, a piedi), non compassionevole né melodrammatico, che omaggia con grande naturalezza la vita e l’arte.

Resistono a una certa idea di cinema (in una scena, Polanski rimprovera gli autori del documentario perché starebbero sbagliando inquadratura), ma anche a una certa idea di testimonianza (e di “ritorno a casa”) e una certa idea di sguardo (camminano, camminano). E questo è particolarmente evidente nel caso di Polanski, che l’esperienza del ghetto l’ha vissuta con piena consapevolezza (mentre Horowitz era molto piccolo), fuggendo, nascondendosi, cambiando padri e madri.

Più di tutto, è evidente – come suggerisce, ben prima di Hometown, tutta la sua filmografia, spesso di storia e di memoria, di violenza e d’ingiustizia – che Polanski intende sfuggire la cultura e il ruolo della vittima. Il che non significa non includersi in quella vicenda e in quell’orrore, non parteciparvi e non piangere i morti; significa, piuttosto, non assecondare una certa retorica – alla quale il cinema ha largamente contribuito – che maneggia confusamente testimonianza storica e sentimentalismo, fatti e narrazioni, comprensione ed empatia, e che negli ultimi decenni ha abusato delle immagini del dolore (fino a renderle semplicemente “curiose”) e interpretato pavlovianamente l’esposizione del pubblico allo spettacolo dell’orrore come un rimedio di per sé miracoloso.

Polanski, del resto, possiede – come Horowitz – l’intelligenza delle immagini e il talento del narratore, e la scelta di non identificarsi completamente, fino in fondo, con un pezzetto, uno soltanto, della propria biografia, per quanto traumatico, è esattamente ciò che gli ha consentito di trasformare in cinema, grandissimo cinema, la storia (vera) di Władysław Szpilman (e del ghetto di Varsavia). Il pianista (2002) è uno scambio di persona, Hometown, idealmente, il suo dietro le quinte. In cui Polanski parla di case, rumori, oggetti, strade, di ciò che faceva, diceva, vedeva: ricostruisce una storia “piccola”, la sua storia, senza mai incorniciarla in qualcosa di più grande, senza mai dire che cosa rappresenta o significa o vale, senza mai farla diventare Storia e Memoria. Questo, semmai, è il compito – il più difficile – del cinema.

Polanski e Horowitz peccano forse di pudore, mescolato a un po’ di paura e a un pizzico di comprensibile egoismo sentimentale che si potrebbe scambiare per reticenza, senza dimenticare che il primo, studente alla Scuola di cinema di Lodz (e attore amatissimo da Wajda, prima ancora che regista), è stato educato a una certa distorsione – caotica, cinica, beffarda – di stampo surrealista. Così, oltre a dribblare il ruolo della vittima (anche in quanto personaggi di un film sul ghetto di Cracovia e la deportazione degli ebrei), nel loro dialogo regista e fotografo mettono ripetutamente in crisi un altro termine (maiuscolo) caratteristico della storia novecentesca e delle narrazioni dell’Olocausto, quello di Testimone.

Eppure, è proprio grazie a questa specie di resistenza emotiva e culturale nei confronti del “genere” che Hometown diventa un prezioso film sulla memoria (della Shoah, ma non soltanto) come problema, anziché come soluzione. La sua potenza, la sua forza liberatrice e il suo valore “educativo” emergono a poco a poco, passo dopo passo, incontro dopo incontro, nella riflessione (mai intellettualistica) sul significato del ritorno, sulla dialettica tra realtà e ricordo, sulla distanza tra memoria personale e parola, sull’inevitabile distorsione della rievocazione.

Succede, per esempio, quando Polanski e Horowitz riflettono, molto umanamente, sul desiderio di non voler ricordare – che poco ha a che fare con la rimozione e, ancor meno, con la negazione. O ancora, quando fanno visita (dopo moltissimi anni) alla tomba del padre di Polanski: anziché chiudersi in preghiera, il regista mette in scena un pezzo di teatro dell’assurdo, rievocando, poco importa con quanta aderenza ai fatti, la bizzarra vicenda del trasferimento del corpo del padre da Parigi a Cracovia, e la sua rocambolesca sepoltura. E poi, inevitabilmente, quando affrontano la questione delle immagini. Mentre Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer non riescono a evitare il ricorso all’Archivio visivo (anche questo termine ormai maiuscolo) dell’Olocausto per ambientare i racconti di Polanski e Horowitz, regista e attore si pongono, piuttosto, il problema di fare e guardare immagini appartenenti a quella storia, a quei luoghi, a quella memoria.

Lo fanno, indirettamente, sviluppando, con non poche difficoltà e risultati insoddisfacenti, alcune fotografie che Horowitz ha scattato all’amico all’inizio del film; lo fanno, in modo esplicito, ragionando sulla fragilità romantica della Cracovia che sopravvive, come immagine, dentro di loro. Polanski lo dice chiaramente: se facessi un film a partire dalla mia memoria personale, perderei completamente il ricordo di ciò che ho vissuto, “non rimarrebbe più nulla”. Le immagini non sono facili, non possiedono niente di naturale o immediato. “Usciamo di qui”, dice impaziente Polanski a Horowitz quando hanno finalmente concluso la stampa delle fotografe. “Ne ho abbastanza”.

Hometown rappresenta una specie di antidoto alla massiccia somministrazione di parole e immagini vuote, colpevoli e colpevolizzanti, orchestrata annualmente dai guardiani della memoria, per citare il titolo di un bel libro di Valentina Pisanty. Polanski e Horowitz non hanno niente da insegnare o dimostrare, e anche la condivisione della propria memoria è una scelta che in fondo riguarda soltanto loro stessi, e dalla quale, in qualsiasi momento, vogliono essere liberi di ritrarsi. Non avvertono alcun dovere, personale o storico, e non hanno nessuna voglia di interpretare ciò che hanno vissuto (ciò che sono stati) al di là dei fatti, per spostarlo su una scala di grandezza diversa da quella dell’esperienza personale.

Hanno novant’anni uno, ottantatré l’altro: sanno fin troppo bene che i viaggi nel tempo sono un esercizio deformante, e che a “casa” non ci sono che fantasmi. Tutt’altro che paradossalmente, si respira una commovente normalità in Hometown, la normalità, quasi banale, di due amici in là con gli anni che tornano dopo moltissimo tempo a visitare i luoghi in cui sono cresciuti. “Se ti dicessero che puoi rivivere la tua vita, ma senza cambiamenti, esattamente com’è stata, accetteresti o no?”, domanda Polanski a Horowitz nel finale del film. “No, io vorrei essere nato alle Hawaii”, taglia corto il fotografo con un sorriso.

Hometown – La strada dei ricordi. Regia: Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer; sceneggiatura: Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer; fotografia: Lukasz Herod; montaggio: Mateusz Kudla; musiche: Leszek Mozdzer; interpreti: Roman Polański, Ryszard HorowitzStanislaw Buchala, Jolanta Kruk, Cezary Garwolinski, Bronislawa Horowitz Karakulska; produzione: Èliseo entertainment, KRK Film; distribuzione: Vision Distribution, Europictures; origine: Polonia; durata: 75′; anno: 2023.

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