Una donna e un uomo si rincorrono e si affrontano, le loro vite si intrecciano, divergono e poi si confondono. Lei raccoglie indizi, cerca tracce, segue piste, e spera che si trasformino in prove. Vuole sapere, perché crede che la verità sia lì, a portata di mano, anche se non è sicura di poterla sostenere. Lui raccoglie ricordi, cerca sintomi, segue affetti, e spera che dischiudano un senso. Vuole credere perché sa la verità, ma non è in grado di sostenerla sino in fondo. Due progetti epistemici contrapposti e complementari, che articolano però la medesima tensione tra quanto si può sapere e quanto si vuole credere. Homeland, la serie televisiva prodotta da Showtime e giunta alla conclusione della sesta stagione, è tutta racchiusa in questa polarità: una variazione sull’estensione delle modalità che legano soggetto e verità nel tempo della Guerra al terrore.
Lei e lui, Carrie Mathison e Nicholas Brody, sono rispettivamente un’agente segreto in forza alla CIA affetta da sindrome bipolare e un marine degli Stati Uniti appena liberato dopo otto anni di prigionia in Iraq e accolto in patria con tutti gli onori. Lei crede che lui, sotto le sembianze dell’eroe, sia in realtà un terrorista pronto a un’azione eclatante; lui sa di crimini di guerra commessi da parte del suo governo contro bambini iracheni innocenti e comincia a credere in valori (e in un Dio) diversi da quelli propugnati dalla sua Nazione. Ma lei e lui, in fin dei conti, sono soltanto un pretesto, il tema di base sul quale si innestano tutte le variazioni: lui addirittura morirà alla fine della terza stagione, eppure la serie prosegue noncurante. Perché l’architrave del racconto, ciò che sorregge e rilancia la narrazione è questa ricerca incessante, da parte dei protagonisti, di un motivo per credere (nel lavoro, nella patria, nei valori condivisi, nei colleghi e negli affetti, ecc.) malgrado quanto sanno, malgrado i doppiogiochismi, i tradimenti e i voltafaccia, le meschinerie grandi e piccole del potere.
A chi si può credere, a cosa dunque si deve credere? Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una serie sul terrorismo contemporaneo, in Homeland il centro non è occupato dalle immagini della fede, piuttosto dalla fede nelle immagini. Non di efficacia pragmatica si tratta, dunque, quanto di efficacia cognitiva (che certo dà luogo ad azioni conseguenti, ma solo in seconda battuta); l’immagine come prova e testimonianza, i suoi buchi e le sue aporie: ecco l’orizzonte a cui tende la messa in scena. Sistemi di sorveglianza “su misura” che non catturano l’essenziale; immagini rubate che risultano fuorvianti; enormi schermi ad alta definizione che vengono presi in scacco; prove visive che si rivelano una messa in scena; testimonianze fotografiche flagranti non credute: sono questi altrettanti punti nodali della rappresentazione disseminati nell’arco delle sei stagioni, che mostrano quella tensione elastica fra sapere e credere che regola la relazione tra essere umano e mondo. Una condizione che continua a smarginare, o verso uno scetticismo radicale o in direzione di una fiducia ingenua.
Un processo che travalica i confini dello schermo per coinvolgere le forme dell’esperienza dello spettatore. La serie apre così un secondo fronte di interrogazione relativo agli stereotipi e alle credenze che ne derivano, soprattutto in relazione alla fede islamica, praticando un gioco al limite tra struttura del racconto (la sua coerenza e la sua imprevedibilità) e mondo contemporaneo al quale fa costante riferimento. Sino a che punto si spinge dunque la consequenzialità musulmano-terrorista? È questa la domanda latente che attraversa almeno tre stagioni (la prima, la terza e la sesta), declinata secondo sfaccettature differenti: la conversione, i tratti esteriori (il velo), le pratiche quotidiane. In quale misura, in altri termini, il credere precede, istruisce e conforta il sapere: questo il piano di consistenza di Homeland.
Nell’epoca in cui tutto può essere saputo, può essere cioè oggetto di conoscenza, constatiamo che tutto è invece diventato oggetto di credenza, una credenza, però, che non è più organica, ma sfilacciata ed effimera; una credenza che non rinvia più a una totalità dettata dall’incontro tra il soggetto e il mondo sorretto da impalcature robuste, ma a una frammentarietà fragile e insicura, dalla quale scaturisce una fede debole. “Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo” (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Ubulibri, 1989, p. 191), scrive Deleuze in pagine celebri de L’immagine-tempo; e se il cinema moderno – “quando smette di essere brutto” (p. 192)– aveva il potere e il dovere di restituirci la credenza nel mondo così com’è, nella sua totalità, la serialità contemporanea sembra invece costruirsi attorno a questo legame ormai sfaldato.
Perché la Guerra al terrore, suggerisce Homeland, ha trascinato con sé tutti i capisaldi della “religione civile americana”, quel complesso di valori, norme e credenze in grado di garantire – nel bene e nel male – un’omogeneità comunitaria e un piano di comprensione condiviso tra gli individui, valori che sono l’oggetto del contendere e il terreno sul quale si sviluppa questa guerra. Lo scontro di civiltà teorizzato dai teorici neo-conservatori è dunque anzitutto uno scontro di religioni, con le loro certezze e le loro patologie; ma è anche uno scontro di fedi, una incrollabile (dei terroristi, degli apparati di sicurezza, dei tutori dell’ordine) e una dubbiosa (di chi è preso nel mezzo, su entrambi i fronti). Personaggi granitici ed efficienti sono semplici comprimari di una scena occupata da figure i cui legami con il mondo si sono allentati irreversibilmente. Carrie, Brody, Saul, addirittura Quinn nell’ultima stagione: alla coppia percezione-reazione si è sostituita la veggenza; alla caccia strategicamente organizzata, l’erranza intercontinentale.
Questo doppio piano di conflitto produce così assetti variabili, nei quali la contrapposizione rigida sfuma sempre più in un punto focale grigio, dove le differenze si elidono, mentre il rumore di fondo conquista il primo piano e ottunde i sensi. Due religioni contrapposte, due fedi divergenti si trovano alla fine più vicine di quanto non credessero e si specchiano angosciate nel riflesso altrui, quasi indistinguibili nelle pratiche a cui danno origine. Questa indistinzione è il rovescio concettuale del paradigma della Guerra al terrore, che invece si basa sulla contrapposizione immediata tra un noi e un loro, un qui e un là, un presente contemporaneo e uno anacronistico, dunque tra democrazia e terrorismo, senza scarti o zone di indecisione, ponendo così gli “altri” fuori da ogni condizione di legittimità.
È su questo piano che la serie gioca la sua partita decisiva, sino al punto di fare a meno dell’altro, se non come pretesto per gli idioti o per i cinici. Dopo Beirut, Teheran, Islamabad e Berlino, la stagione appena conclusa chiude così (provvisoriamente) il percorso tracciato in questi sei anni, riportando lo scontro all’interno della società americana, ancora più incattivita e impaurita rispetto a quella che aveva accolto Brody come un eroe e lo aveva poi additato come il principale nemico della patria. Il giovane Sekou, ragazzo newyorkese di origini nigeriane che rivendica la sua fede islamica sui social network, diviene il capro espiatorio perfetto per tentare di sovvertire gli equilibri politici rimescolati dall’elezione della prima presidentessa statunitense, per rinsaldare cioè quei vincoli di fede (non è questo il senso ultimo di “America first”?) che sono il collante comune della religione civile americana. Una presidentessa alla quale i meccanismi narrativi ci inducono a prestar fiducia nei suoi propositi di rinnovamento etico e politico, salvo mostrare in ultimo un volto ferino (nella sua impassibilità), controcanto del famoso sguardo in macchina (“We make the terror”) che chiude la passata stagione di House of Cards.
“Viviamo in un mondo in cui gli Stati minacciano il terrore, lo esercitano, talvolta lo subiscono. È il mondo di chi cerca di impadronirsi delle armi, venerabili e potenti, della religione, e di chi brandisce la religione come un’arma” (C. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore, Adelphi, 2015, p. 42), nota Carlo Ginzburg nel suo ultimo libro. Le immagini sono lo strumento principale in questa nuova guerra, iniziata non si sa bene quando, ma la cui conclusione è di certo lontana; le immagini (o meglio, il cinema, dice Jean-Louis Comolli, intendendo insieme una modalità di messa in forma e un’esperienza di visione) sono il terreno comune per vittime e carnefici, il piano condiviso sul quale si sviluppa una battaglia di efficacia simbolica, lo spazio di tensione tra il credere alla rappresentazione e il sapere presupposto sul mondo. Ma allora, non “quanto sappiamo attraverso le immagini?”, bensì “quanto può un’immagine?” è l’interrogativo ultimo, aperto e mutevole, che Homeland ci pone. Una potenza che è in grado di riconfigurare il passato, la storia e l’archivio della nostra memoria, ma anche di costruire il presente nell’istante stesso del suo farsi. Verso quale direzione, è la posta in gioco del cinema che viene.
Riferimenti bibliografici
J.-L. Comolli, Daech, le cinéma et la mort, Verdier, Lagrasse 2016.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989.
C. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore, Adelphi, Torino 2015.