«Viviamo nel tempo ma pensiamo nello spazio» scrive Federico Leoni in Bergson. Segni di vita (Feltrinelli 2021, p. 21). Vivere nel tempo significa partecipare dell’inesauribile movimento della natura: vuol dire che le nostre esistenze non sono in alcun modo separabili dalla vita, dalla continuità della vita. Tuttavia, pensiamo nello spazio, cioè pensiamo non a partire da questa radicale continuità, bensì secondo un meccanismo spaziale, che colloca un’entità accanto ad un’altra entità, come se il mondo fosse composto di cose separate che solo in un secondo momento si possono, ma non debbono, incontrare. Il tempo è continuità, ma i nostri pensieri non sono continui, al contrario, parlare e pensare non fanno che produrre discontinuità. Parlare significa separare e distinguere. Si pensi ad un nome, “isola”, ad esempio come quella – che qualcuno ha deciso di chiamare “Surtsey”, un’isola vulcanica a sud dell’Islanda – di cui vediamo una brulla spiaggia nella foto qui sopra.

Il nome “isola”, in effetti, rende bene la differenza fra la vita secondo il tempo e il pensiero secondo lo spazio. “Isola”, infatti, fa subito pensare ad un’entità separata e, appunto, isolata, qualcosa che se ne sta per conto suo. Il caso dell’isola di Surtsey, da questo punto di vista, è esemplare. Si tratta di un’isola molto recente, è la parte emersa di un’eruzione vulcanica sottomarina che raggiunse la superficie del mare il 14 novembre 1963. L’eruzione durò fino al 1967. Cominciamo dal nome di quest’isola, Surtsey. L’isola ha bisogno di essere nominata? La vita ha bisogno del linguaggio? O meglio, chi ha bisogno di dare un nome alle cose, le cose stesse o noialtri umani? C’è di più, perché il concetto di isola fa pensare, come abbiamo appena ricordato, a qualcosa di separato e indipendente. In effetti per qualche tempo, subito dopo la sua emersione, l’isola rimase completamente priva di vita. Ma solo per pochissimo tempo, o forse c’è sempre stata vita sull’isola ma non ce ne eravamo accorti.

Già nel 1965, infatti, sulla superficie annerita dell’isola erano visibili le prime forme di vita vegetale, come il ravastrello artico (Cakile arctica). L’eruzione era ancora in corso, ma la vita “aveva fretta” di prendersi anche questo pezzetto di roccia bruciata dal fuoco. In poco tempo le specie presenti sono aumentate, e con loro quelle animali, all’inizio solo uccelli, ma poi insetti, vermi, lumache. Nonostante tutto c’è vita su Surtsey. Il tempo è continuità. Il pensiero, invece, pensa per distinzioni e compartimenti stagni. È un’isola vulcanica in mezzo al mare, un posto per niente adatto allo sviluppo della vita. Si pensa per cose, ma il mondo non è fatto di cose, bensì di eventi e connessioni, di flussi temporali, di relazioni. Dove il pensiero spaziale vede solo un aspetto, “cenere”, “isola”, la vita che è tempo e divenire trova invece un’occasione per sviluppare nuova vita, come il fiore di questa pianta di ravastrello artico che vive in mezzo ai sassi:

L’evoluzione, cioè il movimento, l’evento, crea, appunto, dei possibili che non erano tali. Crea, per l’esattezza, dei possibili che saranno stati i suoi possibili, ma solo dopo che lui li avrà realizzati. Produce dei possibili che, prima, non erano né possibili né impossibili. Costruisce ex nihilo il sostrato che sembrerà aver reso possibile la sua altrimenti impossibile differenziazione. A ogni passo ridisegna le sue condizioni di possibilità, le sue circostanze necessarie, le sue cause. Le costruisce ex nihilo, questa è forse la formula su cui insistere (ivi, p. 140).

Il pensiero che pensa per nomi e per cose non riesce a vedere, del mondo, che quello che questi nomi e queste cose ci costringono a vedere. Ma la vita, che non parla appunto perché è impegnata a vivere, non conosce queste distinzioni, e laddove diciamo che la vita è impossibile la vita prospera, così quando diciamo che le specie viventi sono separate e vivono in ambienti distinti arriva il virus che scompiglia tutte le nostre distinzioni e mischia genomi e ambienti. In questo senso la vita è tempo, mentre il pensiero è spazio.

Il libro di Leoni presenta Bergson come il filosofo che ci può aiutare a pensare il mondo contemporaneo, in un tempo che non riesce a pensare quello che sta succedendo, un tempo in cui si realizzano, a partire da quelle innescate dal virus, connessioni inaudite che le nostre parole non riescono ad afferrare e pensare. In questo senso la nozione di spillover – il concetto biologico più bergsoniano che ci sia – il “salto di specie” che ci angoscia da quasi due anni, ormai, diventa da caso eccezionale a condizione normale del mondo vivente: la vita, come quella irresistibile che in pochi anni ha riempito di sé lo scoglio bruciacchiato di Surtsey, non fa che “saltare” da un luogo all’altro. Per Leoni il punto decisivo è che Bergson non pensa per nomi, e quindi per cose, bensì in modo avverbiale:

Bergson ama gli avverbi, è abbastanza chiaro. Cioè, ama i modi. C’è qualcosa che dice la cosa come sempre la stessa cosa, nome o verbo, ma c’è anche qualcosa che dice i tanti modi di quella stessa cosa, e forse che quella stessità della cosa è un’immaginazione, erroneamente sovrascritta ai suoi tanti modi. Ci sono solo i modi, non la cosa di cui i modi sono modi. Ci sono solo gli avverbi, non il soggetto che compie una certa azione, non l’azione compiuta dal soggetto, presi nella loro universalità simmetrica, Socrate in sé che si dedica all’alzarsi in sé. Piuttosto, Socrate si alza di scatto, lentamente, velocemente, stancamente, vivacemente. Non c’è un alzarsi in sé (ivi, p. 23).

Ecco il punto, non c’è Socrate “in sé” che poi si alza, si siede, e poi ancora beve la cicuta. In realtà Socrate in quanto “sostanza” non esiste, esistono piuttosto degli eventi, dei movimenti temporali, dei “modi” appunto, cioè dei momenti di vita. C’è il socrateggiare, qua e là, della vita. Capiamo così perché l’operazione della nominazione, come ad esempio quella che arbitrariamente attribuisce a un fenomeno della vita del pianeta il nome “Surtsey”, sia un’operazione in realtà che è tanto più potente quanto più si presenta come semplice e innocua. Come scrive lo stesso Bergson nel Pensiero e il movimento, «ora, qual è la funzione primitiva del linguaggio? È di stabilire una comunicazione in vista di una cooperazione. Il linguaggio trasmette degli ordini o degli avvertimenti. Prescrive e descrive».

Nel primo caso è un appello all’azione immediata, nel secondo è la segnalazione della cosa, o di qualcuna delle sue proprietà, in vista dell’azione futura. Ma, in un caso come nell’altro, la funzione è industriale, commerciale, militare, sempre sociale. Le cose che il linguaggio descrive sono state ritagliate nel reale dalla percezione umana in vista del lavoro umano. La proprietà che esso segnala sono gli appelli della cosa a un’attività umana» (ivi, p. 72). Pensare secondo lo spazio significa, allora, decidere – per una volta l’etimologia è davvero illuminante; dal latino decīdĕre, mediante l’unione del prefisso de– (da) con il verbo caedĕre (tagliare). “Decidere” allora significa letteralmente tagliare da, tagliar via, dare un taglio, definire – di isolare una porzione di mondo, tirarla via dal “reale” della vita, e considerarle come un’entità distinta e autonoma. Entità che “esiste” soltanto in vista del nostro uso. Parlare secondo lo spazio significa trasformare il continuo del tempo in una serie discontinua di cose. Occorre piuttosto, scrive Leoni, tornare a questa decisione originaria (una decisione che nessuno ha mai preso, propriamente, una decisione implicita nel fatto di pensare/parlare secondo lo spazio), a ridare tempo al tempo. Si tratta, quindi, di:

Risalire dagli osservabili, dalle entità già pensate, dal problema così come è stato organizzato da qualcun altro, al momento in cui quelle decisioni venivano prese, e potevano essere prese in altra direzione, raggruppando in tutt’altro modo gli elementi del campo, rendendo evidenti tutt’altre evidenze, imponendo come ovvie tutt’altre ovvietà, e dimenticando nel limbo dell’impensato tutt’altre possibilità (ivi, p. 10).

Fare filosofia secondo Bergson, invece, non significa altro che risalire a quel vasto e inesplorato “limbo dell’impensato” in cui ci aspettano “tutte le altre possibilità”. Il mondo della vita è sempre al di là o al di qua delle nostre parole e delle nostre previsioni, e il tempo della pandemia ce lo mostra ogni giorno, con previsioni che durano un giorno e numeri che cambiano in continuazione. C’è così, osserva Leoni, «una specie di dualismo tra vita e pensiero, tra tempo nel quale la vita si disporrebbe spontaneamente e spazio in cui le “parole”d finiscono per disporla» (ivi, p. 13). Bergson è il filosofo che ci permette di pensare questo dualismo, non tanto per superarlo, perché Homo sapiens è questo stesso dualismo, quanto piuttosto per cominciare a vederlo, in modo di riuscire a vedere, infine, l’onnipresente tentazione isolazionista del nostro modo di stare al mondo. La posta in gioco di questo pensiero ancora da inventare, un pensiero secondo il tempo e non solo secondo lo spazio, è proprio il mondo della vita, un mondo che attraverso il virus ci sta dicendo che le nostre distinzioni e le nostre parole non parlano del mondo, ma dell’unico mondo che conosciamo, quello al nostro servizio. Ma quel mondo sta finendo, ce ne accorgiamo ogni giorno di più. Ma questo non significa che finisca il mondo, significa che finisce un mondo, quello delle isole e delle cose. Occorre allora, scrive Leoni, un pensiero della velocità, ché la velocità è appunto spazio per tempo:

Questo paradigma della velocità fa dell’essere un caso limite del divenire, ma non fa affatto del divenire un caso limite dell’essere. L’essere è un caso limite e si ottiene attraverso un passaggio al limite, come si dice nei termini del calcolo differenziale. L’essere sta sempre per essere, ma non è mai […] E per soprammercato, nel punto in cui sta sempre per essere, sta sempre per essere in direzioni divergenti. Non sta mai per essere una cosa soltanto, ma sta per essere sempre e simultaneamente più cose. Cose che si convertono continuamente le une nelle altre. Cose che sono già sempre, con velocità variabile ma inesorabile, le une e anche le altre (ivi, p. 89).

Torniamo di nuovo alla vita che prospera sull’isola di Surtsey. C’è della vita, dovunque; malgrado i nostri tentativi di controllarla la vita si sposta e si insinua proprio là dove le nostre categorie spaziali avrebbero invece escluso che potesse insinuarsi. Il virus – come il vulcano che mischia e confonde fuoco e acqua, roccia e fiori, luce e profondità oceaniche – ci ‘dice’ che un nuovo tempo è iniziato. O meglio, sappiamo benissimo che questo tempo c’è sempre stato, perché la vita è tempo, e il tempo non inizia. Il virus ci ha fatto capire, o almeno ci prova, che è necessario un pensiero diverso della vita e del nostro rapporto con la vita. Un pensiero temporale, veloce e avverbiale. Cos’è quindi il virus se non questa scoperta? «Nel tempo in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere, nascono soprattutto i mostri» (ivi, p. 194). L’evoluzione, cioè la vita, procede attraverso i mostri, gli ibridi che saltano le specie, oltre le identità e le differenze. Per questa ragione i mostri sono pericolosi. Bergson è il filosofo che non ha paura dei mostri, perché sa che solo un mostro porta il nuovo. È il nuovo la posta in gioco del nostro tempo. Ecco perché, infine:

Dobbiamo […] pensare la continuità bergsoniana della natura nel suo aspetto polemico ed eterogeneo. Abbiamo parlato della grande comunicazione di tutto con tutto, della grande continuità di ogni cosa in ogni cosa. Ora dobbiamo vedere il rovescio della continuità, il fatto che quella comunicazione procede per grumi, per assemblaggi di eterogeneità, per agglomerazioni. Procede per screziature, per sordità reciproche, per sfasature che proprio per questo si prestano al concatenamento (ivi, p. 113).

Federico Leoni, Henri Bergson. Segni di vita, Feltrinelli, Milano 2021.

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