Nel cinema di Tsangari, le articolate geografie finzionali occupano un ruolo centrale nella costruzione della narrazione. Soffermandoci allora sui diversi spazi, all’interno della filmografia della regista greca possiamo registrare un passaggio dal mondo virtuale e postmoderno di The Slow Business of Going, agli spazi architettonici, confinati e utopistici di Attenberg, per approdare infine ai cronotopi del castello gotico e dell’isola in The Capsule, e all’eterotopia maschile della nave di Chevalier. Seguendo queste coordinate, risulta di grande interesse anche l’ultima opera della regista, ovvero l’adattamento cinematografico del romanzo di Jim Crace (Harvest), presentato in concorso alla 81° edizione del Festival di Venezia.

In questo ultimo film, troviamo una riflessione più esplicita sulla relazione tra gli spazi e i personaggi che li abitano, messa a tema dal racconto della mappatura degli stessi luoghi immaginari. Ambientato durante il periodo immediatamente precedente alla Rivoluzione industriale, i confini del piccolo villaggio scozzese al centro del film sono ben definiti: una delle abitudini dei nativi è quella di far colpire la testa dei giovani ragazzi con le pietre che delimitano il territorio, in modo che questi ricordino sempre il limite da non oltrepassare. Il protagonista è Walter Thirsk (Caleb Landry Jones), un uomo dalla città, arrivato più di dieci anni prima insieme al proprietario del feudo Charles Kent.

In apertura, il film ci presenta un villaggio autonomo e in equilibrio, con scene che ricordano le opere pittoriche con i contadini dell’olandese Pieter Bruegel il Vecchio, in particolare quelle incentrate sulle feste e sulla mietitura. Ma questa lontananza dal mondo esterno rende il villaggio particolarmente vulnerabile alle trasformazioni storiche ormai in atto. Nei termini di Westphal, l’ordinarietà ciclica della comunità è sprovvista da storia e per questo è equivalente a una «non-storia» (2011, p. 19). Una delle prime crepe in questo sistema chiuso avviene con l’arrivo di un cartografo, a cui sono state commissionate la realizzazione di mappe del territorio. Contemporaneamente, i confini del villaggio sono stati oltraggiati da un gruppo di forestieri, in seguito puniti con ostilità dai contadini.

Se l’autore inglese Jim Crace si è autodefinito come uno “scrittore di paesaggi”, la regia di Tsangari cerca di potenziare visivamente l’intreccio cartografico finora delineato. Ciò avviene in particolar modo attraverso le mappe, che raffigurano gli abitanti impegnati nell’attività del raccolto come piccoli puntini rossi sulla tela. A questa immagine segue in maniera quasi didascalica un’inquadratura dall’alto, che con il drone cerca di imitare l’iconografia della veduta a volo d’uccello.

Lo stesso Walter inizia ad assistere il cartografo nel suo compito: in quanto outsider, il protagonista si distingue dal resto dei contadini per la sua marcata natura riflessiva e sensibilità, che lo rendono adatto all’apprezzamento di elementi paesaggistici. Quindi al posto della registrazione dei dati richiesti nella restituzione oggettiva dello spazio, per Walter la ricostruzione del luogo avviene facendo ricorso alle sue esperienze personali, mediante le quali riesce a descrivere le tonalità dei colori e la consistenza degli oggetti.

Questa apparente opposizione nella rappresentazione dello spazio è stata affrontata da alcuni dei contributi più importanti nel dibattito critico. In particolare, secondo le definizioni di “spazio sociale” di Lefebvre e di “terzo spazio” di Soja, gli spazi vissuti sono sempre allo stesso tempo «reali e immaginati» (Soja 1996, p. 11). In maniera simile, anche Prieto cerca di adottare sia una prospettiva interna che esterna nello studio dei luoghi: mentre la visione soggettiva «dà priorità alla densità, complessità e agli aspetti qualitativi dell’esperienza di un luogo» (2012, p. 187), quella oggettiva ha una rilevanza scientifica, che si basa su dati quantificabili e sull’«astrazione analitica e sulla prospettiva decentrata associata alle mappe» (ibidem).

Il conflitto spaziale per Tsangari è impersonificato da tre figure allegoriche della modernità: il cartografo, il migrante e l’uomo d’affari. Mediante questi, vengono inseriti degli elementi anacronistici: i forestieri sono interpretati da attori britannici di origini nigeriane e brasiliane, e indossano indumenti che sembrano appartenere alla nostra contemporaneità. I contadini temono questi personaggi venuti dall’esterno, senza sospettare che anche loro saranno in seguito costretti a vivere nelle stesse condizioni. Infine, la realizzazione delle mappe condanna lo spazio omogeneo del villaggio alla sua distruzione. In questo modo, la regista decide di raccontare i meccanismi fatali della Storia e l’esperienza di chi è rimasto escluso.

Riferimenti bibliografici
A. Poupou, Going Backwards, Moving Forwards: The Return of Modernism in the Work of Athina Rachel Tsangari, in “Filmicon: Journal of Greek Film Studies”, 2, 1, 2014.
E. Prieto, Literature, Geography and the Postmodern Poetics of Place, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2012.
E.W. Soja, Thirdspace: Journeys to Los Angeles and Other Real-and-Imagined Places, Blackwell Publisher, Oxford 1996.
B. Westphal, Geocriticism. Real and Fictional Spaces, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2011.

Harvest. Regia: Athina Rachel Tsangari; sceneggiatura: Joslyn Barnes, Athina Rachel Tsangari; fotografia: Sean Price Williams; montaggio: Matt Johnson, Nico Leunen; musiche: Nicolas Becker, Ian Hassett, Caleb Landry Jones, Lexx; interpreti: Caleb Landry Jones, Harry Melling, Rosy McEwen, Arinzé Kene, Thalissa Teixeira, Frank Dillane; produzione: Sixteen Films, Rebecca O’Brien, Louverture Films, Match Factory Productions, Haos Film, Why Not, Meraki Film; origine: Gran Bretagna, USA, Germania, Francia, Grecia; durata: 131’; anno: 2024.

Tags     Tsangari, Venezia 81
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