Il nuovo film di Alessandro Rossetto prosegue la ricerca avviata dal regista padovano già a partire dai primi anni duemila sulla sua regione, su quell’area del NordEst caratterizzata da processi storici particolarmente interessanti; un’area che pare viaggiare a un’altra velocità rispetto al resto del Paese, tanto da immaginare di distaccarsene, senza tuttavia trovare il tempo per interrogarsi sui “costi” sociali di tutto ciò. È una concezione, quella di Rossetto, che vede il cinema come un laboratorio di indagine al contempo geografica, economica e sociologica, già sperimentata con il precedente Piccola patria (2013) e in documentari come Bibione Bye Bye One (1999) e Chiusura (2002).
Ispirato dall’omonimo libro dello scrittore padovano Romolo Bugaro, uscito nel 2015, Effetto domino (2019) racconta la storia del geometra e impresario Gianni Colombo (Mirko Artuso) e dei “pesci piccoli e grandi” che gli ruotano attorno. Dopo anni di duro lavoro e poche soddisfazioni, Colombo ha finalmente avuto una visione, un’idea capace di fare della sua cittadina e della sua piccola patria, relegata ai margini delle cartografie economiche e politiche del mondo globalizzato, un luogo di avanguardia di quello che potrebbe diventare il business del futuro, su scala mondiale.
L’Italia, l’Europa e molte nazioni caratterizzate da un alto tasso di benessere stanno andando incontro al progressivo invecchiamento della popolazione, tanto che nel 2050 gli over sessantacinque supereranno in numero gli under sessantacinque. Per quale motivo non trasformare tale tendenza in un business? Come non cogliere l’occasione, offerta da tali dati demografici, per distruggere gli alberghi novecenteschi e le strutture termali in decadenza e costruire nuovi eleganti palazzi adibiti a residenza per ricchi anziani provenienti da tutto il mondo?
L’idea attecchisce, l’impresario coinvolge l’ex manovale Franco Rampazzo (Diego Ribon) e altri colleghi che – come si dice – si sono fatti da soli. Ma mentre arrivano i primi finanziatori, dall’altra parte del mondo – per la precisione a Hong Kong – qualcuno viene a conoscenza del progetto e, tramite un intermediario, entra subdolamente nella partita. Demolizione e ricostruzione sembrano quasi coincidere tanto è veloce la macchina. Eppure, come d’improvviso, qualcosa si inceppa: la banca ritira il finanziamento con una scusa. Rampazzo, che aveva provato a “salire di livello”, perde tanto la propria quota del progetto quanto la faccia con le decine di fornitori coinvolti. È l’inizio dell’effetto domino di cui parla il titolo, dove l’interferenza di colossi multinazionali, unita alla persistenza di vecchi potentati imprenditoriali locali, provoca il venir meno di rapporti economici e fiduciari basati sul contatto diretto e sulla contiguità territoriale.
Dall’inizio alla fine, una voce off sostanzia il racconto degli eventi. Si tratta di una scelta che può apparire poco originale o stancante, non fosse che, in questo caso, assume una funzione teorematica. In ognuno dei sei capitoli che scandiscono la narrazione di Effetto domino, la voce off guida gli spostamenti del punto di vista sulle vite private e professionali dei diversi personaggi coinvolti nell’operazione edilizia. Invita lo spettatore a seguire gli snodi dell’ambizioso progetto e, soprattutto, a comprendere la meccanica geopolitica del gioco del domino, dove “locale” e “globale” non si oppongono ma si compenetrano ed entrano in un rapporto di connivenza reciproca, fino al prevalere di interessi privati – autoctoni e stranieri – che squalificano e azzerano tutto il resto.
Quantomeno a partire dagli anni ottanta il cinema italiano ha posto sotto osservazione il Veneto, una regione caratterizzata sul lungo periodo da contingenze particolarmente complesse e interessata, nel corso degli anni novanta e duemila, da dinamiche industriali, economiche e sociali accelerate. Due registi come Carlo Mazzacurati e Corso Salani hanno del resto cercato di analizzare e comprendere il segreto e gli effetti collaterali del dinamismo del NordEst, negli statti anni in cui il tema iniziava ad essere affrontato da parte delle scienze sociali. Da Gabriele Salvatores a Giuseppe Tornatore, fino a Matteo Garrone, registi provenienti da altre parti d’Italia hanno invece identificato tra il Veneto e il Friuli Venezia Giulia lo scenario ideale per ambientare storie cupe, rapporti conflittuali e traumi di carattere psicologico e sociale.
Nella realizzazione di Effetto domino, Rossetto si confronta con tali riferimenti, dando luogo a un film profondamente costruito e, al contempo, interessato a condurre un’indagine visiva di un ambiente ben preciso. Se la scansione in capitoli è funzionale alla tenuta narrativa del film di finzione e alla dimostrazione di un teorema – tendenzialmente valido anche altrove –, i movimenti della macchina da presa sono da subito quelli di chi conosce le coordinate ambientali nelle quali si svolgono i fatti. Alle inquadrature della cittadina termale riprese da un drone – che caratterizzano l’inizio del film e che coincidono con il palesarsi dell’idea nella mente dell’imprenditore – fanno seguito le immagini di rendering della sontuosa residenza per anziani. Dopodiché, il punto di vista si abbassa al livello del suolo e mostra la smania della costruzione che non lascia spazio alla fase progettuale. Mostra la crisi della filiera imprenditoriale e la distruzione dei rapporti sociali. L’esaurirsi di un modello di mondo.
Come ha osservato Antonio Costa, il cinema di Rossetto si caratterizza per una serie di scelte – l’attenzione al “tessuto geo-antropologico circostante” e l’“ibridazione di documentario e fiction” – che lo avvicinano ad altri autori italiani contemporanei, come Salvatore Mereu, Leonardo Di Costanzo e molti altri. Ma, soprattutto se confrontato con i film di ambientazione meridionale realizzati da altri registi nel corso degli ultimi anni e nei decenni scorsi, quanto colpisce di Effetto domino è la completa assenza di punti di fuga da un’idea della socialità e dell’estetica interamente tarate sul principio di commerciabilità, oppure, più semplicemente, sui schèi: è questa la parola che ritorna con maggiore ricorrenza nelle bocche dei personaggi, qualsiasi sia il loro ruolo e il loro statuto sociale.
Nel Veneto immaginato da Rossetto, è come se i personaggi non fossero mai in condizione di abitare felicemente il proprio quotidiano, né di godere di piccoli momenti di evasione (la sequenza del film nella quale la moglie del manovale rinfaccia al marito un’intera vita trascorsa senza mai passare una sola domenica insieme, senza mai guardarsi negli occhi). Del resto, le rare occasioni di socialità festiva presenti nel film sono di fatto propedeutiche all’avvio del progetto imprenditoriale, oppure precedono momenti eminentemente contrattualistici che non prevedono altra presenza che quella maschile.
Come già avveniva in Piccola patria, Rossetto rappresenta questo mondo imprenditoriale attraverso immagini cupe e personaggi involgariti che danno corpo a situazioni al limite del grottesco. Ma, a ben vedere, si tratta di un grottesco livido, fondato su momenti di sfarzo improvviso in mezzo a macerie e materiali edili dismessi. Non si tratta dunque di quella tendenza all’eccesso e alla caricatura – ben presente nella storia del cinema italiano – capace di dare luogo a un rovesciamento o a una sospensione dei rapporti di subordinazione tra i diversi personaggi, tra i diversi soggetti produttivi in questione. Non c’è spazio per il carnevale in questa cittadina laboriosa. L’unica via è la fuga, intrapresa da una delle due figlie di Rampazzo. Ma anche la fuga non può che essere “cieca”, senza progetto, senza meta, in questo spicchio di mondo che continua a concepirsi come centripeto, privo di fuoricampo.
Siamo arrivati alle ultime inquadrature del film. Tutti i protagonisti si sono impoveriti e la città stessa, in quanto spazio di vita e di relazioni, sembra non esistere più. Ma intanto, una volta terminata la costruzione dell’elegante residenza per anziani viene organizzata una festa di inaugurazione. Con una certa insistenza, la macchina da presa di Rossetto si focalizza sul logo della struttura. Si tratta di una medusa: l’hanno scelta ad Hong Kong, gli investitori orientali. Stando a quanto sostengono, questi animali non invecchiano mai. Sono le meduse a incarnare la promessa venduta ai clienti della residenza: l’immortalità, l’illusione di un “paradiso in terra”. Esseri ibridi e mostruosi, chimere, tappezzano le sale del centro per anziani come si trattasse di una decorazione a grottesca. Una grottesca veneta.
Riferimenti bibliografici
A. Costa, Alessandro Rossetto, Veneto piccola patria, in A. Costa, G. Lavarone, F. Polato, a cura di, Veneto 2000. Identità e globalizzazione a Nordest, Marsilio, Venezia 2018.
R. De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 1999.
F. Zucconi, Geografia, in Lessico del cinema italiano, a cura di R. De Gaetano, Mimesis, Milano 2014.