Di Atget si è detto che le sue fotografie potevano essere paragonate a scatti realizzati sul luogo di un delitto. O almeno così ci suggerisce Walter Benjamin. «A pensarci bene – ci dice ancora il filosofo tedesco – ogni angolo delle nostre città non è forse davvero un potenziale luogo del delitto?». E se il luogo del delitto – nel suo essere «vuoto di uomini» – viene fotografato per avere indizi, il fotografo, in questo senso, non ha forse il compito di svelare la colpa, di denunciare chi ha commesso l’atto criminale?
Nell’attraversare le sale delle Gallerie d’Italia di Torino – che ospitano la mostra Gregory Crewdson. Eveningside – si ha certo la stessa impressione, ovvero quella di assistere alla ricostruzione di una scena del crimine. La prima e più immediata motivazione è che le fotografie di Crewdson rimandano certo all’ambientazione noir dei film di Hitchcock, così come alle atmosfere cupe e angoscianti di David Lynch e Cronenberg – e, del resto, è proprio alla storia del cinema che il fotografo americano guarda per realizzare i suoi lavori, per dare forma alla sua personale idea di immagine fotografica. Utilizzare l’artificio per «mettere a nudo l’artificio e far esplodere il sogno a occhi aperto collettivo», come scrive Jonathan Lethem. Ciò a cui si assiste, meglio: ciò che si attende, allora, è che – proprio come in un film – qualcosa di terribile possa accadere da un momento all’altro. Eppure, a un secondo sguardo ci si accorge che, invece, qualcosa è già stato, che quello che si ha di fronte – non meno inquietante – non è altro che ciò che è rimasto dopo il passaggio di una lenta ma inesorabile catastrofe. Se, però, ciò che rimane – letteralmente forma fotografica della sopravvivenza – è una umanità attonita, disorientata, ogni delitto presuppone un’altra e più radicale domanda: chi – o cosa – è la vittima?
Presentata in anteprima internazionale a Torino, Eveningside è l’atto conclusivo di una trilogia concepita da Gregory Crewdson tra il 2012 e il 2022, un lavoro decennale che il curatore Jean-Charles Vergne ricompone per la prima volta negli spazi delle Gallerie d’Italia. La mostra si articola seguendo i diversi capitoli che compongono la trilogia: Cathedral of the Pines (2013-2014), An Eclipse of Moths (2018-2019) e, infine, Eveningside (2021-2022). C’è ancora un’altra sezione, posta all’inizio del percorso espositivo: una selezione di scatti su pellicola realizzati nel 1996 e che, insieme, formano la serie Fireflies (lucciole). Primo dato: gli scatti in analogico sono un formato insolito per uno tra i maggiori esponenti della staged photography: il lavoro di Gregory Crewdson si compone di una preparazione meticolosa – così come mostra il video Making Eveningside realizzato da Harper Glantz (figlia di Juliane Hiam, compagna di Crewdson nonché tra i principali soggetti delle sue fotografie) e proiettato in una sala adiacente alla mostra, e che ci riconsegna il controcampo dello scatto, ovvero il lavoro della troupe impegnata nella cura dei dettagli, cifra di una fotografia che è soprattutto contemplazione, ricerca, ri-costruzione, mentre le musiche originali di James Murphy degli LCD Soundsystem e di Stuart Bogie segnano la cadenza di tempi lenti, ritmi dilatati.
La perfetta definizione degli scatti è l’esito di un lavoro di post-produzione che lega insieme decine di fotografie. Le lucciole, invece, si sottraggono per loro stessa natura all’immobilità: sono bagliori, sono illuminazione in movimento. Da qui la necessità di una fotografia meno meditativa, ma capace di cogliere nell’istante l’essere “intermittenza” delle lucciole. Ma dove trovare le lucciole nelle successive serie realizzate da Crewdson? È nella traccia della loro luce ormai affievolita che si cela l’indizio da seguire per dis-velare il delitto? È dunque davvero giunto il momento della “scomparsa delle lucciole”, della loro morte così come profetizzata da Pasolini?
L’intera trilogia può essere certo letta come il racconto del lento declino della società americana. Con Cathedral of the Pines – realizzata nella foresta di Becket, nel Massachusetts – il fotografo mette in scena una riflessione più intima sull’essere umano, indagato negli spazi domestici. Fotografati nella quotidianità delle mura domestiche, i corpi fotografati da Crewdson – spesso nudi – sono alle prese con l’ordinarietà del gesto che tuttavia non può mai compiersi, mentre ciò che accade è sempre altrove – fuori dalla finestra, oltre lo schermo della televisione – destinato a essere visto, mai vissuto. È in An Eclipse of Moths però che il formato si allarga per assorbire lo spazio geografico e proiettare con maggiore violenza gli individui nella solitudine del proprio destino. Il fotografo americano viaggia tra le cittadine del Massachusetts, ne traccia l’inabitabilità. Sono proprio questi, del resto, gli anni in cui Trump è stato chiamato a guidare il paese: così, già nelle pieghe del titolo è possibile rintracciare l’immagine di una “eclissi” che coinvolge non solo le falene, ma l’intera America che, immersa nella luce del crepuscolo, non trova più indicazioni da seguire.
E, tuttavia, la salvezza non è di questa terra: pertiene al mondo della religione, si situa al di là – au-delà – del tempo storico, mentre nel qui e adesso la redenzione trova luogo tanto nei “redemption center” – come mostra la foto dallo stesso titolo – quanto nella reclame di una marca di birra. Questa geografia di corpi e di luoghi troverà nell’ultima serie Eveningside un’esplosione radicale: Evening non è una città del Massachusetts e, ugualmente, potrebbe essere ovunque. Nata dall’unione di diverse cittadine del New England, Eveningside mette in scena uno spazio “qualsiasi”, letteralmente uno s-paesamento – acuito dall’utilizzo del bianco e nero – un essere senza paese che sospende i pochi individui presenti nella serie nel tempo poroso dell’adesso.
Sia Cathedral of the Pines che An Eclipse of Moths e, soprattutto Eveningside, mettono certo in scena la storia di una distruzione che continua a premere ai bordi della cornice, di un delitto che, tuttavia non è ancora del tutto compiuto. Torniamo per un momento alla serie Eveningside. Nello scatto Morningside Home for Women una donna è fotografata mentre è in piedi, sola in mezzo alla strada; un taxi, alle sue spalle, sembra allontanarsi. Non sappiamo chi sia, da dove venga: ha una valigia accanto a sé e null’altro. L’insegna alla porta, tuttavia, ci dice che c’è una casa dove poter arrivare, un luogo che trova già nel nome – Morningside – la promessa di ciò che non è più sera. In questo senso, se ciò che sopravvive è tale in quanto immagine sopravvivente, è possibile rintracciare in questo minimo spazio dell’umano un bagliore luminoso, una “intermittenza” capace di rischiarare – anche se solo temporaneamente – il buio.
E non è questo, del resto, il ruolo dell’immagine? Apparizione unica, preziosa, anche quando è ben poca cosa, scrive Didi-Huberman, è cosa che brucia, cosa che cade: «come una lucciola, finisce per sparire alla nostra vista, per andarsene dove forse verrà intravisto da qualcun altro, dove la sua sopravvivenza potrà ancora essere osservata». Non sparizione, dunque, ma sopravvivenza “malgrado tutto”, resistenza al declino ultimo grazie alle immagini-lucciole. È possibile allora giocare il possibile delle parole, e leggere qui “side” come “margine” e non solo “lato”: e dis-porsi al margine della sera, lì dove ancora non è notte, ci permette di poter continuare a cercare la luce.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000.
G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza, Bollati Boringhieri 2010.
Gregory Crewdson. Eveningside, 12 ottobre 2022 − 22 gennaio 2023, Galleria d’Italia di Torino.