«Questo film è una finzione, basata su fatti reali». Il cartello che introduce i titoli di testa di Grazie a Dio, ultima fatica di François Ozon premiata con l’Orso d’argento al Festival di Berlino, parla chiaro: quello che vedremo non sarà un documentario e neppure un reportage, nonostante tragicamente veri — a quanto risulta dalle carte processuali — risultino i fatti in esso rievocati. Sin dagli esordi, contraddistinti dalla volontà di coniugare il divertimento cinefilo con le istanze del New Queer Cinema (da Sitcom – La famiglia è simpatica, 1998, a Gocce d’acqua su pietre roventi, 2000), l’ex-allievo della Fémis ha evidenziato un fortissimo piacere per le pratiche del racconto, sperimentando di film in film le architetture narrative di diversi generi, dal thriller (Swimming pool, 2003) al mélo (Angel. La vita, il romanzo, 2007). L’identità autoriale di questo «rifondatore sperimentale del cinema borghese» (Menarini 2004) risiede però non nel piacere della riscrittura o della decostruzione quanto, al contrario, nel desiderio di nascondere la propria firma dietro la superficie del racconto, lasciandola magari appena visibile, come la cicatrice sul ventre di Ludivine Sagnier in Swimming Pool.

In un’intervista concessami nel 2008, in occasione di una retrospettiva organizzata dal Verona Film Festival, Ozon disse che “la forma” dei suoi film corrispondeva a quella delle storie che raccontava, molto spesso attinte da fonti letterarie e filmate alternando il registro della stilizzazione (Otto donne e un mistero, 2002) con quello dell’introspezione (Il tempo che resta, 2005). All’origine di Grazie a Dio, invece, non c’è una suggestione cinefila o una pièce, ma uno squallido fatto di cronaca che ha suscitato, in Francia ma non solo, scandalo e fortunatamente anche indignazione.

Si tratta dell’affaire Barbarin, ovvero del procedimento giudiziario che nel 2016 ha visto coinvolto, in qualità di imputato, l’arcivescovo di Lione Philippe Barbarin, colpevole, secondo quanto è emerso dal processo di primo grado, di non aver denunciato gli abusi sessuali ammessi (e mai nascosti) da un sacerdote della sua diocesi, père Bernard Peyrat, tutt’ora in attesa di processo. A differenza di quelli delle vittime, i nomi dei carnefici sono riportati con precisione nel film, a conferma del totale disinteresse, da parte di Ozon, nei confronti di un approccio documentaristico. Fatti, nomi, e cognomi sono noti e lo erano, in parte, anche nel momento in cui, dopo essersi consultato con alcuni dei fondatori dell’associazione delle vittime, il regista ha deciso di portare sullo schermo quello che, nel frattempo, era già diventato un libro (Marie-Christine Tabet, Grace à Dieu, c’est prescrit. L’affaire Barbarin, 2017). Come suggerisce anche il nome dell’associazione, www.laparoleliberee.fr, insomma, la parola era già stata liberata e resa pubblica.

Quello che Ozon ha cercato di fare è filmare il riverbero di questa parola in due territori a lui cari e già sondati in passato, ma forse mai con altrettanta lucidità: la memoria, rimossa o negata (Sotto la sabbia, 2000), e la famiglia, un tempo oggetto di divertita derisione (Sitcom – La famiglia è simpatica) e oggi invece indagata come parte attiva nel dramma delle vittime, tanto nel bene quanto nel male. Nella sezione che il sito sopracitato dedica alle testimonianze degli ex-scout emerge, infatti, la disperata solitudine di coloro che, pur avendo trovato il coraggio di parlare, non riuscirono a ottenere conforto e sostegno nei genitori, timorosi di guastare la relazione con la comunità cattolica di riferimento o semplicemente incapaci di credere alle parole dei figli: «Se persino mia madre non ha voluto ascoltarmi o credermi, — scrive Laurent, oggi quarantaseienne, — chi lo avrebbe potuto fare? Allora ho continuato a vivere convincendomi che non mi era accaduto nulla».

Identici a questo sono i destini di Alexandre (Melvil Poupaud) ed Emmanuel (Swann Arlaud), il primo e l’ultimo dei tre volti a cui Ozon dà voce e corpo, punteggiando la cronaca delle loro azioni (e del loro dolore) con flashback brevissimi ma sufficienti a restituire l’ineluttabilità di un ricordo che — come quello di chiunque abbia subito un danno o un lutto — è fatto di ombra e di pietra: impossibile da rimuovere, ma al contempo fluttuante nelle zone morte del rimosso. Sintonizzandosi su una lunghezza d’onda molto frequentata dal cinema contemporaneo (si pensi ad esempio all’ultimo Eastwood, ma anche alle cicatrici interiori del Joker di Joaquin Phoenix), Ozon realizza dunque un film sulla fragilità maschile, o meglio, sulla maschilità intesa come conflitto tra un essere e un dover essere all’interno di un sistema che ancora misura la virilità con il metro dell’affermazione, tanto sul piano sociale che affettivo o sessuale.

Grazie a Dio, insomma, ci ricorda che l’identità di genere è l’esito di un processo di appropriazione soggettiva che ognuno di noi compie rispetto al proprio sesso biologico. Essere uomo, pertanto, non è un dato di fatto, ma il risultato di una performance che ogni maschio inconsapevolmente mette in atto innanzitutto con se stesso, a fine di reprimere quelle insicurezze — non importa se generate da traumi oppure no — che potrebbero incrinare il processo di adeguamento a una maschilità intesa come straigthness, linearità di comportamento e orientamento sessuale.

Non a caso l’anziano père Peyrat, per nulla turbato dal confronto con le proprie vittime, loda Alexandre per la sua breadwinnerness, come se il semplice fatto di aver costruito una famiglia numerosa e unita fosse sufficiente a dimostrare che gli abusi subiti non hanno nuociuto in alcun modo alla costruzione dell’identità sessuale. Identità che invece Emmanuel, indubbiamente il personaggio più “ozoniano” tra quelli ritratti, ha raggiunto soltanto al termine di un percorso lungo e sofferto, contrassegnato non solo da fallimenti sentimentali o professionali ma anche dalla necessità di dover far fronte a patologie invalidanti quali l’epilessia e una deformazione del pene, entrambe, secondo lui, direttamente collegate agli abusi: come aveva già fatto in Doppio amore (2017), Ozon riflette ancora una volta sull’anomalia morfologica come luogo del rimosso in virtù del suo forte potere destabilizzante nel processo di costruzione del sé.

La presenza di queste marche d’autore, però, non toglie alle immagini e alle parole di Grazie a Dio quella forza che, per dirla con Rossellini, solo la verità ricostituita (e non spacciata) può garantire. Come per Rossellini, in fondo, anche per Ozon il realismo non è che «la forma artistica della verità», una forma che non rinuncia, per esempio, a utilizzare in senso simbolico la scenografia offerta dalla città di Lione, location reale della vicenda.

Eloquente, in questo senso, è il suggestivo incipit, con quel travelling a seguire i passi di un vescovo senza volto che innalza il proprio pastorale sul cielo di Lione, dominando con lo sguardo, dal belvedere di Notre Dame de Fourvière, una città che però non si è dimostrata molto collaborativa con la produzione, imponendo il divieto di effettuare le riprese all’interno delle chiese (molte delle location, infatti, sono state reperite in Belgio). Non sorprende nemmeno che Canal +, sino ad ora partner di tutti i film di Ozon, questa volta non abbia concesso alcuna forma di finanziamento, valutando probabilmente il rischio che l’uscita del film (avvenuta il 20 febbraio 2019) potesse trasformare un processo giudiziario ancora in corso in un processo mediatico. La corte penale del tribunale di Lione si è infatti espressa sul Cardinal Barbarin solamente il 17 marzo di quest’anno e due mesi dopo, il 22 maggio 2019, la Conferenza Episcopale Italiana ha diramato le nuove linee guida per la tutela dei minori, imponendo ai vescovi l’obbligo morale di denunciare ogni forma di violenza.

Ozon ha definito Grazie a Dio un film “citoyen“, ovvero un esempio di cinema civile finalizzato non tanto a far conoscere un fatto, quanto a favorire il confronto, la discussione e il dibattito tra gli spettatori, sulla falsa riga di Il caso Spotlight (Tom McCarthy, 2015). Rispetto al film-inchiesta di McCarthy, termine di paragone citato da moltissimi critici, questo film è però pressoché contemporaneo ai fatti che racconta e dunque stimola una riflessione non solo sul problema del perdono (la giustizia divina può sostituirsi a quella terrena?), ma anche sui limiti intrinseci alla libertà d’espressione: permettere la distribuzione del film, secondo gli avvocati di Bernard Peyrat, ha significato attentare alla presunzione d’innocenza del loro assistito.  Pur inserita in una dimessa cornice finzionale, insomma, la verità di Grazie a Dio fa male perché non sta in cielo, come quella relativa al caso di Emanuela Orlandi (La verità sta in cielo, Roberto Faenza, 2016) ma sulla terra: in un sito internet, negli atti di un processo e adesso anche nei volti, nelle lacrime e nelle voci di Dénis Menochet, Melvil Poupaud e Swann Arlaud.

Riferimenti bibliografici
R. Menarini, Cinqueperdue, in Segnocinema, n.130, 2004.
R. Rosselini , Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di, Adriano Aprà, Marsilio, Venezia 1987.
A. Scandola, Il corpo a lavoro. Conversazione con François Ozon in P. Romano, A. Rossi, a cura di, Verona Film Festival – Schermi d’amore, Catalogo generale, Marsilio, Venezia 2008.
Marie-Christine Tabet, Grace à Dieu, c’est prescrit. L’affaire Barbarin, Laffont, Parigi 2017.

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