Nell’incipit di quello straordinario viaggio al termine dell’Europa che è Le mille e una notte – Arabian Nights (2015), il regista Miguel Gomes riprende la sua improvvisa fuga dal set. Schiacciato dall’ambizione di voler fare un film politico e nello stesso tempo onirico, ancorato alle crisi sistemiche del nostro tempo eppure affascinato dalle ambientazioni atemporali del racconto dei racconti orientali, il regista portoghese fugge ironicamente (come farebbe Michele Apicella in Sogni d’oro) inseguito dalla sua troupe perché «questa astrazione mi dà le vertigini». Le sei ore in cui si articolano i tre volumi del film, pertanto, riescono a creare una magnifica fuga di significanti tra l’urgenza di discorsi sociopolitici e la persistenza di archetipi narrativi ancestrali. Due istanze contrastanti che si nutrono a vicenda perdendo ogni confine e ritrovando nell’archivio di forme del cinema una nuova mediazione (im)possibile.
Un paradosso: il regista fugge dal suo film per capire il mondo che lo circonda. Gomes fugge come l’esploratore malinconico all’inizio di Tabu (2012), partendo sempre da un dato reale (la lezione dell’amato Murnau è più viva che mai), per aprirsi puntualmente a coalescenti avventure del sensibile da raggiungere nei falsi raccordi delle immagini: un viaggio tra formati e supporti, stili codificati dal classico al moderno, confini valicati tra tracce documentali e finzionali, bianco-e-nero e colore. Una fiammeggiane riarticolazione di archetipi visivi e narrativi che nella loro ricorrenza simbolica interrogano le nostre soglie critiche e la nostra incapacità di interpretare il mondo. Tutto il cinema di Gomes è un grand tour della conoscenza attraverso la storia delle forme del cinema. Ed è per questo che il titolo del suo nuovo film, forse il più ambizioso a livello produttivo, ha di per sé un valore autobiografico: Grand Tour (vincitore del Premio Miglior Regia nell’ultimo Festival di Cannes) è un progetto lungamente cullato, coprodotto da Portogallo, Italia e Francia, girato in sei paesi in giro per il mondo e frenato dalle limitazioni pandemiche del post 2020, quindi modificato in corso d’opera e divenuto infine un sublime meta-racconto sulla sua faticosa lavorazione.
Il film è ambientato nel 1917/18. Un funzionario dell’impero coloniale britannico stanziato a Rangoon (in Birmania) aspetta la sua fidanzata inglese che non vede da sette anni. Il loro matrimonio è fissato per quel giorno, Edward ha in mano un mazzo di fiori ed è in attesa sul molo del porto, ma prima che Molly sbarchi istintivamente si allontana. Fugge intraprendendo un viaggio nel continente asiatico (attraverserà Cina, Thailandia, Vietnam, Filippine, Giappone) cercando ipotetiche mete dove stabilirsi ma reiterando semplicemente un ciclico movimento casuale. Molly, nel frattempo, si mette alla ricerca del fidanzato credendo convintamente nella bontà dei loro sentimenti e riconcedendo al movimento il dispositivo narrativo causale del racconto d’avventura (come quel Robinson Crusoe letto da un personaggio di Tabu).
In questa traccia così intimamente romanzesca Gomes interroga ancor più direttamente le sue immagini: le linee d’azione dei personaggi principali sono interamente girate in studio (in molti teatri di posa, anche a Cinecittà), con esterni ricostruiti brechtianamente (pensiamo solo all’incidente in treno così evidentemente posticcio). Il viaggio della troupe del film in giro per il continente asiatico, invece, ci viene restituito in lunghissimi e visionari inserti documentaristici dove i personaggi scompaiono del tutto e restano solo i loro potenziali sguardi (o lo sguardo di Gomes?) accompagnati da mille e una voce fuoricampo che raccontano nelle rispettive lingue le gesta di Molly ed Edward nel fluire della vita delle metropoli del XXI secolo. I personaggi vivono nel passato mitico del racconto mentre i loro narratori sembrano vivere nel fluire della vita presente. Le tracce della modernità informatica balenano nel bianco e nero delle inquadrature; il brulichio urbano delle metropoli asiatiche contemporanee decostruisce gli stereotipi esotici di tanta letteratura otto-novecentesca (come il teatro delle ombre e delle marionette); infine l’uso antifrastico di tracce della nostra memoria musicale condivisa crea impreviste aperture sentimentali (il valzer di Strauss sui motorini di Saigon è una delle sequenze più potenti degli ultimi anni, come una struggente versione di My Way cantata in un karaoke di Manila o Beyond the Sea di Bobby Darin che erompe nell’ennesima resurrezione ai confini dell’amore).
Insomma, per Gomes è il linguaggio sincretico del cinema a far balenare forme e discorsi sull’eredità culturale del colonialismo e sulla sua messa in discussione in un campo di forze eterogeno che ci chiama in causa in prima persona. In tal modo il film diventa una rara esperienza visiva. Da qualche parte tra la ricerca del dionisiaco nelle ombre di Murnau e l’estetica dei frammenti di Chris Marker; tra la romantica nostalgia del presente nel Tè nel deserto di Bertolucci e la ricerca di verità estatiche nella Fata Morgana di Herzog; e ancora, tra l’originario stupore delle fiabe orientali di Powell-Pressburger e la riflessione wendersiana sullo stato delle cose del cinema contemporaneo.
A differenza di un cineasta come Robert Eggers che riscrive Murnau con uno stile citazionista essiccato e zavorrato dall’ammirazione cinefila totalizzante, Gomes guarda a quelle stesse ombre espressioniste come ulteriore forma di vita del presente, quindi come cinema vivo che interroghi lo sguardo dello spettatore qui e ora. Un cinema di montaggio, certo, dove le tracce disordinate dei complessi discorsi geopolitici attuali vengono casualmente ritrovate nelle verità esistenziali di personaggi vissuti un secolo fa.
Gomes, semplicemente, crede ancora nell’intensità del cinema. Crede nel potere dialettico delle immagini capaci di far comunicare tempi e spazi diversi, e per questo fa un cinema intimamente contemporaneo. Pensiamo all’evidente decostruzione dello stereotipo dell’uomo avventuriero perso tra echi spionistici e ricerca spirituale, in realtà ben preso smascherato nel suo infantile desiderio di fuga dalle responsabilità. Un discorso che la seconda parte del film riscrive nel volto di Molly vista come l’unica depositaria dello spirito d’avventura ottocentesca reiterato con infinita ironia, passione e desiderio di futuro. Un sovvertimento degli stereotipi di genere mai sottolineato retoricamente ma fatto balenare come una delle tante declinazioni possibili di questo cinema d’avventura del sensibile dove l’autore scommette qualcosa di sé stesso e ci chiede di fare lo stesso.
Ecco, i film di Miguel Gomes sono una delle più convincenti declinazioni contemporanee dell’etichetta “cinema d’autore”. Film che nella loro esibita (e mai dissimulata) postura arthouse non restituiscono per un singolo fotogramma la sensazione di uno sterile esercizio di stile festivaliero. Perché Gomes rivendica testardamente le sue spericolate «fughe dal set» filmandole come «astrazioni e vertigini del reale» che riescono ancora a scartare dall’immaginario algoritmico del XXI secolo favorendo una rigenerante ricerca di nuovi orizzonti di senso.
Noi spettatori, oggi, abbiamo fatalmente perso l’innocenza insita nelle origini della visione cinematografica e non possiamo pretendere di riattivare quell’esperienza, non è più possibile, perché siamo sempre “connessi” al nostro tempo. Abbiamo, però, una memoria visiva che ci lega ad altri tempi. Quindi: fare un film oggi, filmare il nostro presente, è ancora importante perché ci mette in contatto con altri tempi, con altre stagioni di cinema, con altri periodi storici, tentando di riconquistare quell’innocenza perduta. (Miguel Gomes)
Grand Tour. Regia: Miguel Gomes; sceneggiatura: Mariana Ricardo, Telmo Churro, Maureen Fazendeiro, Miguel Gomes; fotografia: Rui Poças, Sayombhu Mukdeeprom, Gui Liang; montaggio: Telmo Churro, Pedro Filipe Marques; interpreti: Gonçalo Waddington, Crista Alfaiate, Cláudio da Silva, Lang Khê Tran; produzione: Uma Pedra no Sapato, Vivo Film, Shellac Sud, Cinéma Defacto; distribuzione: Lucky Red; origine: Portogallo, Italia, Francia; durata: 129′; anno: 2024.