La settima stagione di Game of Thrones, in onda durante la scorsa estate, ha polverizzato ogni record di ascolti, imponendosi – ancora una volta – come uno dei fenomeni televisivi di maggior impatto degli ultimi anni. Nonostante il definitivo scollamento delle vicende dall’originaria saga letteraria da cui sono tratte, lo show ha mantenuto il suo pubblico di affezionati fan, consolidandoli intorno a uno spettacolo che ha, se possibile, incrementato ulteriormente il suo production value. Tra battaglie degne della miglior Hollywood e la regia di scafati professionisti dell’alto budget, GoT ha messo in campo sequenze visive nello stile del più costoso cinecomic. E tuttavia, precipitando gli eventi, i conflitti e le tensioni in una vertiginosa risoluzione sempre più action e fantasy, la settima stagione ha fatto discutere non poco i commentatori.
Ciò che ha lasciato perplessi, o in qualche caso sbigottiti, gli spettatori, è che la serie ha iniziato a finire. A tirare le fila. A normalizzarsi, ricordando a se stessa e ai fan che in fondo non si tratta di altro che di una storia. Game of Thrones si è arresa al fatto che è, nonostante tutto, un oggetto testuale: non un cosmo autonomo e parallelo al mondo del lettore, ma una narrazione che da quel mondo proviene e in esso ritorna.
E così GoT ha anche perso la specificità della sua struttura seriale. Si è ripiegata su se stessa, sfogliandosi via via dei suoi strati di complessità: il miscuglio dei generi, lo sfilacciamento ondivago degli obiettivi dei suoi personaggi, la cangiante roulette dei conflitti.
La settima stagione ha rotto l’incantesimo che faceva di GoT un oggetto filmico a sé stante rispetto all’oggetto letterario da cui ci si dimenticava che fosse tratto e si è mostrata a tutti gli effetti nel suo carattere di riduzione televisiva. Rientrando nei confini sanciti dalla convenzione narrativa del lungometraggio, la serie si è lanciata, con non pochi singulti nella continuity spazio-temporale, verso la soluzione di tutte le sue storie, scandendo i passaggi narrativi come se fosse guidata da un manuale di sceneggiatura strutturalista. Tutta la settima stagione è un susseguirsi di avvicinamenti/conflitti/allontanamenti/punti di morte/risoluzioni: la frettolosa parabola di Lord Baelish ne è un esempio. Se nelle scorse stagioni avevamo imparato che un protagonista può morire anche nel momento narrativo che non gli spetta, proprio come avviene nell’insensatezza della realtà, stavolta ogni tassello sembrava andare al suo posto al momento giusto. Rinunciando alla temporalità viva e inattingibile che dava al mondo-dello-schermo un tessuto cosmico analogo a quello mondo-dello-spettatore, Game of Thrones si è “ridotta” ad essere un lungo film. Che sta per finire.
Se è vero che la nuova stagione ha lavorato diversamente dal solito sul piano della scrittura, riempiendosi di deus ex machina (lo zio Benjen che salva Jon Snow), movimenti drammaturgici incoerenti (il piano del Re della Notte che si fonda sull’incalcolabile imprudenza di Jon e Daenerys che finiscono per regalargli il drago necessario ad abbattere la Barriera), scelte incomprensibili (Cersei che si rifiuta di aiutare Jon Snow e solo dopo che Tyrion prova a convincerla decide di tradirlo) e infrazioni grammaticali (la carneficina di Arya travestita da Walder Frey), è anche vero che Game of Thrones ha dovuto fare i conti con uno straordinario fenomeno di costume scatenato proprio dalla presa che ha avuto sul pubblico. La serie ha dovuto misurarsi con le aspettative dei fan. Con le teorie, i sospetti, i rumors e i leaks, le ipotesi, i mondi dei lettori. Il testo Game of Thrones ha ascoltato l’effetto che ha avuto sulla realtà, lo ha metabolizzato, rielaborato e riproposto. GoT, insomma, come un vero e proprio essere senziente, è divenuta cosciente di sé. Nell’ultima sequenza del primo episodio della settima stagione, quando vediamo Daenerys entrare lentamente nella casa ormai disabitata della sua famiglia, ciò che rende la scena così epica e maestosa è la nostra spasmodica attesa di quel momento. La macchina da presa indugia sui dettagli di quel luogo perché sa che abbiamo aspettato per anni che la Madre dei Draghi tornasse a Westeros. Il tempo si dilata in virtù di un’esigenza extratestuale, che arriva direttamente dal mondo dello spettatore: la sua aspettativa.
La serie conosce il nostro vissuto emotivo e imbastisce un segmento di racconto che ne sia all’altezza. La serie sa di essere Game of Thrones, sa che il suo metodico multistrand ci ha fiaccato, che i suoi accenni al passato ci hanno incuriosito e confuso, che i suoi espedienti narrativi ci hanno dato da pensare. E non può restare immune al nostro vissuto di spettatori. Ecco il controeffetto della realtà sull’oggetto seriale, “gli effetti della gente su Game of Thrones”. Nella dinamica a spirale che Paul Ricoeur ha studiato con acribia nel suo Tempo e racconto, il mondo del testo, dopo aver attinto le sue risorse di senso dal mondo del lettore, ritorna in esso a un livello più profondo, riconfigurandolo. Come una storia aperta, interattiva, che di stagione in stagione raccoglie ciò che ha seminato negli spettatori e imposta la nuova semina in base a ciò che ha raccolto, Game of Thrones ha dato ai suoi spettatori ciò che pensava volessero. Ed è per questo che si è tradita. Perché il carattere più innovativo del racconto di GoT fino ad oggi era consistito proprio nel gioco funambolico tra il dare e il negare, tra il concedere e il frustrare.
Consapevole di sé, la serie ha smesso di seguire il proprio percorso (quello del libro?) e si è ricollocata nel suo contesto: quello di un oggetto narrativo ad uso e consumo del pubblico. Raramente le serie hanno avuto il coraggio e la possibilità di seguire le ere cosmiche del proprio universo, indifferenti alle istanze di noi altri, al di qua dello schermo. Chi ci è riuscito, I Soprano, Lost e pochi altri, ci ha lasciato sgomenti e a volte delusi. A questa sfida, Game of Thrones sembra aver rinunciato. Almeno per ora.
Riferimenti bibliografici
P. Ricoeur, Tempo e racconto. vol. I, Jaca Book, Milano 2016.