Piccolo mondo antico, cadente, grondante più che d’acqua, d’ombre e scrosci, barbagli improvvisi silenzi, categorie immaginali, foniche, notte e rovina: colante di una materia cinematografica che scandisce il tempo – regna la macchina fissa, o in lievi movimenti, a partire dalla prima sequenza, iniziatica, esotica; il bianco e nero e la tensione che ha lo sguardo di scolpire, il piano sequenza, il tempo in quel paradossale persistere dell’acqua – una sorta di eternità cinematografica, qualcosa che condivide con il ricordo la propria natura mitopoietica e si perde negli spazi vasti, devastati dell’inquadratura. È l’ecosistema (cubano, l’entroterra cubano di San Antonio De Los Baños) al centro del film di Tommaso Santambrogio, Gli oceani sono i veri continenti, in apertura delle Giornate degli Autori a Venezia 80.

L’acqua, il rumore invisibile dell’oceano; il moto rovinoso della pioggia (che sfonda i tetti e si rapprende in pozzanghere sul selciato); il tempo sospeso nell’arco del piano sequenza, nel sopore vago del lasso in chiaroscuro del quadro, nella sua illusa vastità: sono i segni, gli attanti di Tarkovskij, di Tsai Ming Liang, ovviamente di Lav Diaz (il suo Storm Children era stata apoteosi pluviale, oceanica), il riferimento più evidente e ampiamente dichiarato di questo cinema, tant’è che il regista filippino, dopo aver prodotto i primi cortometraggi di Santambrogio era stato il protagonista (straordinario) di quello strano (e magnifico) oggetto cinematografico che è Taxibol (2022). Ma, come sempre quando si tratta di autori di talento (e Santambrogio lo è), i riferimenti sono i solidi sostegni per uno slancio, un discorso peculiare; per una sostanziale variazione sul tema che ne Gli oceani sono i veri continenti prende la forma di una malinconica, sofferta epistemologia del territorio, del nido (che sia Cuba o più astrattamente qualsiasi rifugio conosciuto), il mondo autoctono, crepuscolare, fatto di teatri consunti, campi da gioco catafratti in gradinate scalcinate, luoghi abbandonati in cui svettano scheletri di automobili e sale cinematografiche in disuso.

Lo sguardo persistente di Santambrogio esalta questi luoghi, questi oggetti in balia del tempo, qualcosa come le rovine di Benjamin: cose poetiche, il cui stile è conferito dal tempo, dal suo sentimento, dalla sua inclinazione a rivelare il senso delle cose facendone cose di decadenza (cose del tempo) e così eternandole. Si presume che Edith fugga via da Cuba perché, come dice, “gli edifici in rovina ti ricordano sempre che tutto ha una fine”, mentre il suo fidanzato Alex, decide di restare nel piccolo, diroccato mondo antico: vi scorge i segni non di una fine (che sarebbe storica) ma di un’eternità (di stampo cosmologico), di un riparo dalla storia per poter ricevere – per via di ruderi – i segnali inquietanti e vibranti della natura, una sorta di nostalgia del tempo che sarà e poi tornerà a essere; di qualcosa che via via poetizza le cose facendone mitologemi, cose da guardare, da contemplare a dispetto della fuga. I «viaggi la morte» di Gadda o con Lorca, «chi cammina/ s’intorbida./ L’acqua corrente/ non vede le stelle./ Chi cammina/ dimentica. E chi si ferma/ sogna». (Lorca 1976).

Ecco, Santambrogio si ferma, ferma il suo sguardo a ridosso di questi sogni impressi sulla pellicola del mondo da parte del tempo, scampati alla corsa del capitale: campi desolati, arrugginiti; fondachi di carcasse, lamiere; intonaco bianco, scrostato di muri su cui immaginarsi film intrepidi, rivoluzionari, danze appassionate; binari assediati dagli sterpi, soffocati da viticci, gramigne fagocitanti ferro e ruggine. Questi luoghi dialogano intimamente con i vuoti, le assenze, gli abbandoni, che si concretizzano, si fanno immagine mediante un campo di forze negative (ombre, crepuscoli, diroccamenti) e si declinato via via in forme cinematografiche (forme del negativo), ruggine, carcami d’auto, rotaie in preda a espansa vegetazione: anzi sono quell’assenza, sono il sintomo materiale, immaginale, di una lacerazione universale, latente, impressa sulle cose dal tempo.

Il tempo imprime d’assenza le cose tramutandole in rovina: la rovina dice ciò che manca, ciò che le manca o le sfugge, qualcosa come un amore: solo il tempo d’imprimere un’assenza, di reclamare l’amore. Gli oceani allora narrano questa dialettica tra forme e forze del negativo (l’estetica predominante a partire dal Romanticismo: arte che trae forme, costrutti, lampi dal gorgo notturno, scuro): una dialettica della malinconia che bagna i protagonisti del film impegnati in una sorta di falso movimento (come quello di Milagros intenta a spazzare in casa, ma senza profitto, senza raccogliere la polvere); un’inerzia che li porta ad abitare, riabitare i luoghi, a enucleare il nido (la provincia) di San Antonio De Los Baños in una liturgia di possesso da parte dei luoghi sui personaggi. Si ritroveranno alla stazione, come in un film di Kieślowski, ad assistere ai viaggi, la morte, su un treno ossuto e rugginoso, e a contemplare, ad abitare, le rovine delle loro vite, a dare corso ancora una volta al rito del possesso ecosistemico.

Scrive Agamben in Autoritratto nello studio: «Habito è un frequentativo di Habeo: abitare è un modo speciale dell’avere, un avere così intenso da non possedere più nulla. A furia di avere qualcosa, l’abitiamo, diventiamo suoi» (Agamben 2017). Così Alex, Milagros, i due bambini che sognano il baseball, diventano cosa dell’habitat, vi si perdono dentro, nello sfiorire delle cose ormai spampanate: si perdono nella magnifica rovina del tempo, dell’esistenza.

Riferimenti bibliografici
F.G. Lorca, Poesie inedite. Poemas suites canciones, Newton Compton, Roma 1976.
G. Agamben, Autoritratto nello studio, Nottetempo, Milano 2017.

Gli oceani sono i veri continenti. Regia: Tommaso Santambrogio; sceneggiatura: Tommaso Santambrogio; fotografia: Lorenzo Casadio Vannucci; interpreti: Alexander Diego, Edith Ybarra Clara, Frank Ernesto Lam, Alain Alain Alfonso González, Milagros Llanes Martínez, Lola Amores, Jhon Steven Baldriche, Osvaldo Doimeadiós, Joel Casanova; produzione: Rosamont con Rai Cinema; distribuzione: Fandango; origine: Italia, Cuba; durata: 118′; anno: 2023.

Share