Il centenario della Grande Guerra ha costituito in tutta Europa l’occasione per un grande fermento editoriale, pubblicistico e accademico, i cui frutti è impossibile valutare a così breve distanza di tempo. Oggetto di celebrazioni da parte delle istituzioni politico-culturali europee, di bilanci storiografici da parte degli storici di professione, l’anniversario, con la rievocazione delle battaglie e la commemorazione dell’immane numero delle vittime, è divenuto spesso l’occasione per una sacralizzazione del tempo passato e per un’apologia della memoria, rischiando così, neanche tanto paradossalmente, di promuovere una stilizzazione pedagogica della carneficina e di consegnare la guerra ad un passato remoto in cui relegare definitivamente l’orrore, da un lato neutralizzandolo attraverso la distanza della conoscenza storica, dall’altro spettacolarizzandolo per una massa di spettatori-consumatori poco interessati ad una questione più radicale: se e in che misura la catastrofe di cento anni fa riguardi e provochi ancora il nostro presente.
La Prima guerra mondiale come costellazione di eventi in cui si sono fusi, probabilmente per la prima volta nella storia, potenza industriale ed inaudita violenza, legge del progresso ed evocazione di una dimensione primitiva, è stata invece il fuoco di ricerche interdisciplinari più o meno innovative, di approfondimenti calibrati sulle ripercussioni culturali, estetiche, letterarie e filosofiche dell’evento storico, da cui continua ad emergere che la Grande Guerra è stata una cesura che ha squarciato definitivamente la storia dell’Europa moderna, mettendo in moto una rivoluzione geo-politica e culturale ancora in corso, una crisi infinita, irradiazione di quella esplosione avvenuta un secolo fa.
È su questo crinale di difficile mappatura, che separa una considerazione della Grande Guerra come evento sostanzialmente concluso (celebrabile attraverso riti della memoria collettiva o ricostruibile attraverso le discipline storiche), da una sua valutazione come inizio di un evento ancora in corso che schiude la storia culturale dal XX secolo ad oggi, che si colloca la raccolta di saggi curata da Massimo Mori, Gli intellettuali e la Grande Guerra, uscita per il Mulino. Risultato di un convegno tenutosi a Torino nel novembre 2018, il volume si pone esplicitamente in un’importante linea di studi che, a partire dagli ormai famosi lavori di Paul Fussell e di Eric J. Leed, ha spostato il fuoco dell’indagine dal piano degli eventi storici, politici e militari, a quello della loro percezione, ricostruita attraverso il filtro dell’esperienza diretta o della letteratura vera e propria.
Il volume vuole contribuire ad arricchire queste prospettive, ormai consolidatesi in un nuovo filone di studi (per l’Italia non si può non fare il nome di Antonio Gibelli), prendendo in considerazione un’altra categoria di soggetti che pure della guerra ha dato un’interpretazione non meno rilevante degli eventi fattuali. Si tratta appunto degli intellettuali europei nell’accezione più ampia (ma anche più vaga, come si vedrà) del termine. Come sottolineato da Mori nella premessa al libro, si tratta anche nel loro caso di una «guerra interpretata», risultato spesso della proiezione sull’evento storico di ideologie e concezioni storico-filosofiche discendenti dall’appartenenza ad universi di valori radicalmente contrapposti. Come è ormai noto, in ambito tedesco si è trattato di una guerra per la sopravvivenza della Germania e per la difesa di un’autentica Kultur contro disumanizzante Zivilisation occidentale; per la cultura francese e inglese, all’opposto, di combattere il pericolo della “barbarie” germanica, curiosamente caratterizzata, come mostra l’interessante caso delle posizioni di Henri Bergson, da un “meccanicismo” anch’esso anti-umanistico. Diversi ancora i problemi discussi nell’ampio dibattito che caratterizzò la cultura italiana, concentrato soprattutto su un’idea della guerra come occasione per mettere alla prova la consistenza del giovane Stato nazionale.
Per gran parte dell’intellettualità europea, si trattò comunque di gettarsi alle spalle, attraverso una guerra rigeneratrice, una pace troppo lunga e foriera di decadenza culturale e civile. Muovendo da questi assi storico-concettuali, il volume considera in generale i quattro ambiti culturali più importanti dell’Europa di inizio Novecento (tedesco, francese, italiano e anglosassone), e si concentra poi in particolare su alcuni degli intellettuali più rappresentativi per ciascuna di queste aree (Th. Mann, Bergson, Gentile e Croce, Russell), una partizione simmetrica, che, pur senza pretese di esaustività, nasconde in ogni caso aporie e contraddizioni. Lasciando da parte un’assenza pressoché costante nella maggioranza delle ricerche fiorite soprattutto in Italia negli ultimi anni, cioè la considerazione delle posizioni e dei dibattiti che caratterizzarono l’intellighenzia della Russia zarista (omissione figlia di una distanza linguistico-culturale non solo italiana? O di una divaricazione storico-politica conseguenza di lunga durata della Rivoluzione di ottobre?), le perplessità riguardano prima di tutto la definizione della categoria di “intellettuali”. Su questo punto, l’impianto dei diversi saggi non è (e forse non potrebbe essere) coerente e convincente.
Il limpido quadro offerto dal primo contributo dello stesso Massimo Mori, dal titolo Una guerra per la sopravvivenza della Germania, si concentra quasi esclusivamente su personalità intellettuali collocabili nell’ambito del mondo degli accademici tedeschi (a parte una citazione quasi d’obbligo dalle memorie di Stefan Zweig, le coordinate culturali della cultura dell’altro Impero centrale, quello asburgico, non sono considerate nelle loro differenze specifiche): da Troeltsch a Meinecke, da Scheler a Sombart, da Simmel a Max Weber, la precisa ricostruzione di Mori si concentra su un tipo ben definito di intellettuale, quello integrato nell’Università tedesca, e quasi esclusivamente su testi appartenenti ad una tipologia molto precisa, gli “scritti di guerra”, la pubblicistica d’occasione, interventi cioè legati all’attualità e frutto di una strategia culturale in qualche modo diretta dall’alto, cioè di quella «cultura amministrata» che già il Nietzsche della prima Considerazione inattuale aveva profeticamente individuato come una delle più problematiche caratteristiche del Secondo Reich.
Il contributo di Elena Alessiato, integralmente dedicato alle Considerazioni di un impolitico (1918) di Thomas Mann (cui l’autrice ha già dedicato una monografia uscita nel 2011), si concentra invece su un intellettuale decisamente differente, sullo scrittore più “rappresentativo” della Germania di inizio Novecento, muovendosi quindi nell’ambito degli echi della guerra tra scrittori e poeti, altro oggetto privilegiato di tanti contributi usciti in questi anni. La convincente ricostruzione delle coordinate concettuali interne di un testo quasi inafferrabile come le Considerazioni manniane sembra però esaurire la sua spinta interpretativa nel momento in cui si tratta di riassumere il senso complessivo della posizione dello scrittore, forse perché l’autrice, pur ricordando molto opportunamente le parole dello stesso Mann, che decenni dopo definisce le Considerazioni «un romanzo di formazione in forma di saggio», non compie il passo ulteriore, quello verso il romanzo di formazione vero e proprio, la Montagna magica, concluso nel 1924, in cui il confronto di Mann con la cesura spirituale determinata dalla Grande Guerra assume appunto la sua forma più densa e foriera di conseguenze.
Se il campo tedesco soffre di un’indeterminazione circa la definizione della figura dell’intellettuale (accademici o scrittori?), i due saggi dedicati a quello francese non risolvono questa ambiguità. Il quadro generale offerto da Annamaria Laserra offre una grande quantità di riferimenti ad autori e a testi anche poco noti, spaziando anche in questo caso tra scrittori come Gide, Rolland, Barrés, e pubblicisti, filosofi e sociologi come Durkheim e altri. La crise de l’esprit (1919) è al centro anche dell’organico contributo che Caterina Zanfi dedica ai discorsi di guerra di Henri Bergson, in cui la studiosa del filosofo dell’evoluzione creatrice delinea un’interpretazione della filosofia del tardo Bergson come conseguenza di un ripensamento delle posizioni sostenute negli anni del suo impegno politico, offrendo spunti interessanti per sondare gli echi della guerra sulla filosofia posteriore.
I contributi dedicati all’area italiana, affidati all’esperienza consolidata di uno storico come Emilio Gentile e di un italianista come Emanuele Cutinelli Rendina, si concentrano sulle posizioni di intellettuali fondamentali per declinare la questione centrale che occupò la cultura italiana di quegli anni: quella della guerra come prova storica per verificare (o portare a compimento) l’opera di unificazione dello Stato italiano. Anche in questo caso, il lettore si trova di fronte a documentatissime ricostruzioni (generali, come quella di Gentile, o focalizzate sulla contrapposizione delle posizioni di Gentile e Croce, come quella di Cutinelli Rendina), dalle quali però emergono spunti relativamente limitati per una considerazione della Prima guerra mondiale come cesura epocale del Novecento.
Il saggio che forse va più in questa direzione è quello del comparatista Luigi Marfé, dedicato al dibattito sul primo conflitto mondiale nella cultura anglosassone. Molto più focalizzato, rispetto agli altri quadri generali, sul ruolo degli scrittori e dei poeti, il contributo sulla cultura inglese evoca esplicitamente questioni cruciali, come quella benjaminiana della fine dell’esperienza, della guerra che, anche se vittoriosa, è catastrofe di un mondo che scompare per sempre, rottura della continuità storica. Il saggio di Antonello La Vergata, l’unico dedicato ad un pacifista, nella sua analisi delle aporie del pensiero politico di Bertrand Russell durante e dopo gli anni di guerra, non fa che confermare la sostanziale incapacità degli “intellettuali di professione” di fare fronte alle questioni sollevate dall’evento inaudito del primo conflitto mondiale.
Implicita in questa sintesi, inevitabilmente sommaria, di un volume ineccepibile in ottica accademica, è la sua collocazione rispetto al crinale di cui si parlava in precedenza: la ricostruzione di contesti e posizioni teoriche sembra mirare sostanzialmente alla creazione di una distanza storica, alla fissazione di un quadro che, pur nella sua ricchezza e complessità, è come ricoperto da una «nobile patina d’antico», una storia che è «così antica perché si svolge prima di una certa svolta, di un confine che ha scavato un abisso profondo […], nel mondo che precedette quella Grande Guerra con il cui inizio tante cose sono cominciate e, a quel che sembra, ancora non hanno smesso di cominciare» (Mann 2010).
Riferimenti bibliografici
T. Mann, La montagna magica, Mondadori, Milano 2010.
Massimo Mori, a cura di, Gli intellettuali e la Grande Guerra, Il Mulino, Bologna 2019.