di ROY MENARINI
Glass di M. Night Shyamalan.
“Che cos’è Lo squalo se non un film di Roger Corman ad alto costo?”. Permetteteci di partire da molto indietro, per parlare di Glass, nuovo grande risultato – da tutti i punti di vista – di M. Night Shyamalan. È Corman stesso, nella sua autobiografia brillantemente intitolata Come ho fatto cento film a Hollywood senza perdere mai un dollaro (1990), a ricordare la battuta. In questo volume, Corman parla di se stesso come di un “autore/imprenditore”, affermando sotterraneamente di aver incarnato al massimo grado le due nature del cinema, quella artistica e quella commerciale.
Quando Vincent Canby, il critico del “New York Times”, scrive dunque quell’affermazione, non solo riconosce a Corman di aver conquistato Hollywood con il suo cinema di serie B, spingendo il blockbuster americano a fondarsi sulle stesse caratteristiche sensazionalistiche e formalmente intensive. Sta anche segnalando la nascita di altri registi/imprenditori, che hanno poi fatto fortuna dentro l’industria americana post-New Hollywood, alla fine dei settanta e per tutto il decennio degli anni ottanta.
Come è successo che un erede di Steven Spielberg incontra un erede di Corman? È importante ricordare che Shyamalan, dopo i suoi film più celebrati (Il sesto senso del 1999, Unbreakable – Il predestinato del 2000, The Village del 2004), è stato marginalizzato proprio nel momento in cui ha cercato di fare il salto di qualità produttivo, e ha avuto a disposizione budget ingenti. Sia L’ultimo dominatore dell’aria (2010) sia After Earth (2013), pur contenendo per i cinefili squarci spiazzanti e generativi, si sono rivelati insuccessi talmente seri da compromettere la carriera del regista.
Poco dopo, emergeva sulla scena produttiva, in uno scenario sempre più polarizzato tra film ad altissimo budget e prodotti a investimento minimale, un imprenditore – Jason Blum – capace di intuire che horror e thriller potevano essere rifondati su una nuova concezione del prodotto cinematografico: budget ridottissimi, attori poco noti o alla deriva, registi inventivi, investimento sulla distribuzione, concezione della trama del film come veicolo promozionale esso stesso e come territorio sensibile per le contraddizioni socio-politiche del momento – e in questo senso la saga de La notte del giudizio (2013) è esemplare. Insomma, un Corman disinvolto e molto furbo, pronto a fare surf nell’apparente oligopolio degli anni Duemila.
È proprio Blum che ripesca Shyamalan, con il sublime The Visit (2015), e capisce che può fare un’operazione cinematograficamente mai vista: mantenere lo Shyamalan-touch e armonizzarlo con le nuove richieste di un’industria dei generi totalmente cambiata, riportandolo a budget contenuti e imponendo un dialogo fittissimo tra autore e produttore. La storia è nota: Shyamalan ricomincia a mietere successi straordinari, come Split (2016), dove il rapporto costi-ricavi è sbalorditivo. Con Glass, Blum si affianca a produttori e distributori forti (Buena Vista, di casa Disney, e Universal), per poter chiudere la trilogia di Unbreakable, in tal senso restituendo a Shyamalan – in un twist degno dei suoi film – l’autorialismo congelato. Con una differenza: ancora una volta si lavora a budget ridotto, 20 milioni di dollari, una cifra alta per Blum ma molto bassa per i due colossi dell’intrattenimento. Tutti hanno imparato la lezione.Perché il lungo preambolo produttivo? Perché non si può comprendere a fondo Glass e le sue enormi ambizioni senza utilizzare una griglia di “critica della produzione”. Necessaria, perché proprio come L’uomo di vetro interpretato da Samuel Jackson, anche Shyamalan costringe la critica a guardare da un’altra parte, mentre l’impresa si attua altrove. Va benissimo, per carità, analizzare l’antropologia della fiaba a fumetti secondo Shyamalan, o valutare la potenza della versione mentale e schizoide della cultura pop supereroistica (o anche identificare limiti, difetti, cadute di ritmo e incertezze di Glass). Quel che si svolge di fronte ai nostri occhi, tuttavia, non è la chiusura della trilogia cominciata con Unbreakable e riaperta da Split bensì il compimento della trilogia cominciata con Blum. La possibilità stessa, la sostenibilità produttiva ed ecostistemica, dell’immaginario di Shyamalan nel cinema contemporaneo.
Alle seguenti domande – è possibile un film di supereroi senza azione? È possibile un film da multiplex di due ore e dieci ambientato in un ospedale psichiatrico e nel parcheggio delle ambulanze? È possibile trovare la massima libertà autoriale dentro uno dei più giganteschi compromessi produttivi degli ultimi anni? – Shyamalan sembra poter rispondere che sì, è possibile persino nella Hollywood globalizzata e ferocemente industriale di fine ventennio Duemila.
Esattamente come il prisma in vetro che permette l’evasione violenta di Orda e di Mr. Glass, anche il film in sé diventa dunque un rompicapo a rifrazione per l’esercizio della critica. Un tema, questo, di come analizziamo le opere dell’industria americana contemporanea, che con Glass arriva a incandescenza e ci permette di enfatizzare la necessità di una “critica produttiva” che ricordi come, oggi più che mai, il processo industriale e quello narrativo sono impossibili da separare, o peggio da ignorare. Il fatto che essi rilancino, per ovvie necessità di marketing, il nome dell’autore, e persino lo rafforzino, rischia da una parte di ridurre il cinema a un enorme catena di film come branded entertainment e permette dall’altra di generare contenuti positivamente ambigui, costrutti poetici densi, opere destinate a rimescolare le abitudini degli spettatori e a complessificare il consumo del cinema americano.Riferimenti bibliografici
R. Corman, Come ho fatto cento film a Hollywood senza perdere mai un dollaro, Lindau, Torino 1998.
J.A. Weinstock, a cura di, Critical Approaches to the Films of M. Night Shyamalan: Spoiler Warnings, Palgrave Macmillan, London 2010.