L’inquadratura fissa di un cielo stellato è la prima, significativa, tessera lessicale e, al contempo, ideologica di Love lies bleeding, secondo lungometraggio da regista di Rose Glass. Una panoramica, successivamente, delinea il setting dell’azione: una palestra immersa in un ambiente desertico, luogo di lavoro della protagonista Lou, interpretata da Kirsten Stewart.
In una sorta di dittico inconsapevole con la sua opera prima, la regista sembra riprodurre uno stilema, pur ribaltandone gli assunti: introdurre e accogliere lo spettatore nella sua narrazione filmica mediante un’inquadratura totalizzante, che dia l’impressione di immergersi in una narrazione universale e individuale al tempo stesso. Se in Love lies bleeding è un campo lungo di un cielo stellato seguito immediatamente da un movimento di macchina che situa la scena e l’intero apparato narrativo del film, nel caso di Saint Maud si trattava, invece, di una ripresa in dettaglio di una zuppa di pomodoro in procinto di bollire, in cui, tuttavia, dato il close-up, erano visibili solo le abiette increspature sulla superficie intensamente rossa dell’alimento. In entrambi i casi, dunque, la regista offre dei prologhi programmatici, che suggeriscono l’orientamento che prenderà il racconto nel suo evolversi: la descrizione di percorsi tracciati e seguiti da soggettività femminili in contesti sociali aspri e ostili, percorsi individuali e specifici che, tuttavia, possono assumere anche un valore collettivo ed estendersi a descrivere la condizione di una molteplicità di soggettività diverse.
Le protagoniste di entrambi i lungometraggi della regista sono punti di convergenza e intersezione di svariati assi di differenza, intesa non come «categoria neutra, ma [come] esclusione da tutti i privilegi della soggettività» (Braidotti 2011, p. 95). Questo le rende figure oppresse ed alienate: «corpi marginali, usa e getta» (ibidem). Il delirio mistico di Maud la colloca alle estremità del reticolo sociale, dal momento che su di lei grava lo stigma della malattia mentale, motivo per il quale viene isolata dai suoi conoscenti e derisa dalla donna di cui si prende cura come infermiera; nel caso di Lou e Jackie si è dinanzi a soggettività ancor più molteplici e stratificate.
Su entrambe, innanzitutto, pesa il pregiudizio che perseguita le soggettività queer, in quanto si individuano fin dalle prime inquadrature come tali. Pur non insistendo particolarmente sull’argomento, Glass dissemina il tessuto filmico di vari indizi dell’emarginazione sperimentata dalle due donne a causa della loro sessualità non normativa. Si pensi alla sequenza in cui l’FBI si presenta a casa di Lou e uno degli agenti sfoglia con una curiosità tanto morbosa quanto disgustata alcune pagine di Macho Sluts, testo emblematico, che descrive in maniera spregiudicata e realistica, attraverso brevi racconti erotici, il sadomasochismo lesbico, avversato fortemente dalla lotta alla pornografia condotta durante l’epoca di Reagan dalle femministe americane (cfr. ivi, p. 110). Il libro, che potrebbe apparire ad un primo livello di lettura superficiale, un casuale oggetto del profilmico, in realtà ha un preciso valore simbolico, culturale e politico. Per comprendere ciò, ci viene in soccorso l’introduzione del libro stesso, in cui l’autrice sostiene:
Le cose che mi sembrano belle, ispiranti, produttive, alla maggior parte delle altre persone sembrano brutte, odiose e ridicole. Questa è la parte più dolorosa si essere sadomasochista: questa esperienza di differenza radicale […]. La nostra cultura insiste sull’uniformità sessuale e non riconosce alcuna differenza neutrale, solo crimini, peccati, malattie ed errori. Questo compiaciuto totalitarismo erotico produce una violenza nascosta sui dissidenti e sui pervertiti. Distorce la nostra immagine di noi stessi, le ambizioni e i sogni. […] Viviamo nella paura di essere conosciuti e ciò uccide il nasconde desiderio erotico prima che l’immagine di ciò che si desidera possa formarsi completamente (Califia 1988, p. 10).
Queste parole assumono tutt’altra valenza se ibridate con le figure di Lou e Jackie, che in diverse altre occasioni subiscono la violenza del dominio patriarcale, che cerca di frenare le loro traiettorie cinestetiche. Le due protagoniste, infatti, si muovono spesso attraverso lo spazio: un movimento decentrato, orientato verso i limiti estremi della città, e in molti casi intriso di violenza. Quest’ultima, in particolare, sembra addensarsi soprattutto nel corpo non conforme di Jackie, aspirante culturista. Fin dalle prime sequenze, Jackie si configura come un soggetto mobile, caratterizzata da alcuni tratti tipici del nomadismo di stampo braidottiano: si accampa ai limiti della nuova città in cui è appena giunta, e dove conoscerà Lou.
In una sequenza significativa assistiamo alla pratica del rituale quotidiano del risveglio mattutino svolta interamente all’aperto e in maniera fortunosa, immagine emblematica e rappresentativa dei suoi vagabondaggi, che riprenderanno ancora nel procedere del film. Questo suo situarsi temporaneo potrebbe identificarsi con quei «periodi di raccoglimento e di stabilità temporanea […] necessari per produrre […] sintesi e associazioni» (Braidotti 2011, p. 80). Posizionandosi nella rete di relazioni sotterranee che nutre e, in certo qual modo, sconvolge la città di Lou, Jackie, tuttavia, percepisce un evidente senso di estraneità in quanto rifiuta la trama di violenza patriarcale che permea e intesse i rapporti affettivi e sociali tra gli abitanti. Tutto ciò alimenta una rabbia crescente, che si incarna materialmente nel corpo in rivolta della donna, i cui muscoli si gonfiano al dilatarsi costante della sua collera, fino all’esplosione finale che la porta, in un eccesso d’ira, ad assassinare J.J., il marito abusante di Beth, la sorella di Lou.
Il moto violento di Jackie è parte integrante della sua natura di soggetto nomade e in movimento, in quanto non è altro che un’intensa reazione di risposta a un’altra forma di violenza, quella normata e istituzionalizzata degli organismi di dominio maschili e fallocratici, infatti come sottolinea Braidotti: «La violenza nomade e quella di Stato sono immagini speculari, divise da un’ostilità antitetica» (ivi, p. 77). Jackie, dunque, è ascrivibile a quel gruppo di «donne ribelli […] che percepiscono il mondo costruito dagli uomini con un costante e doloroso senso di auto-estraniamento e sono quindi capaci di erompere in gesti di fortissima violenza» (ibidem). Tale violenza, nella poetica di Glass, diviene strumento di salvezza e di auto-affermazione, come si evince dal segmento narrativo in cui Lou rischia di venire uccisa dal padre, rappresentante di un’altra forma di istituzione patriarcale, contrapposta a quella statale, in quanto capo di un’associazione a delinquere, e figura emblematica del dominio maschile poiché desideroso di imporre il proprio controllo su Lou e spingerla a collaborare di nuovo con le sue attività illecite. In questa sequenza, fulcro centrale del testo filmico, il corpo di Jackie, sede di manifestazione del suo desiderio di rivolta all’oppressione, si espande a dismisura, schiacciando così la fonte e il simbolo del potere dominante di matrice patriarcale.
Proprio a partire da questa rivolta violenta, le traiettorie cinestetiche delle due protagoniste si uniscono, acquisendo una forma e un aspetto più marcatamente nomadico, in quanto emblema di soggettività relazionali e alleate in un processo di delineazione di percorsi alternativi e rizomatici, che le portino a riconoscersi secondo il proprio sguardo e non più secondo quello altrui, che le categorizza come alterità negative. Significativa è, in proposito, la voce al telefono e fuori campo della madre di Jackie, che la accusa sdegnosamente di una mostruosità che il finale ribalta, caratterizzandola come una forza «trasformativa e liberatoria» (Creed 2022, p. 4).
Riferimenti bibliografici
R. Braidotti, Soggetti nomadi. Corpo e differenza sessuale, Castelvecchi editore, Roma 2011.
P. Califia, Macho Sluts, Alyson Publication Inc., Los Angeles 1988.
B. Creed, Return of the monstrous-feminine. Feminist New Wave Cinema, Routledge, New York 2022.
Love Lies Bleeding. Regia: Rose Glass; sceneggiatura: Rose Glass, Weronika Tofilska; fotografia: Ben Fordesman; montaggio: Mark Towns; musiche: Clint Mansell; interpreti: Kristen Stewart, Katy O’Brian, Jena Malone, Anna Baryshnikov, Dave Franco, Ed Harris; produzione: A24, Film4, Escape Plan, Lobo Films; distribuzione: Lucky Red; origine: Stati Uniti d’America, Regno Unito; durata: 104′; anno: 2024.