L’archivio della Rivoluzione russa possiede una grande quantità di taccuini tenuti per l’annotazione personale e riservata dei “fatti” mentre avevano corso; di diari che danno conto degli effetti – più o meno istintivi – generati dagli avvenimenti sullo scrivente foss’egli pienamente concorde o renitente; di cronache che s’indirizzano all’esposizione informativa della storia immediata in un coacervo di notizie giornalistiche, resoconti di vita quotidiana, impressioni colte dalla “strada” e dalla “piazza”.

La maggior parte delle scritture finora pubblicate, di valore disuguale e divergente ampiezza, appartiene alla prosa politica. Sono entrate nel corpus di documenti che lo storico sottopone sempre alla critica delle fonti per poterli impiegare in base al criterio dell’attendibilità. Esiste però anche un complesso di cronache, diari, taccuini, che ambiscono allo statuto di «prosa documentaristica» (dokumental’naja proza) nell’accezione definita dalla critica letteraria Lidija Ginzburg:

Vi è una solida catena fra la prosa artistica e la storia, le memorie, le biografie e infine i “documenti umani” della vita quotidiana. Questa correlazione in diversi periodi è stata complessa e varia. A seconda dei presupposti storici, la letteratura ora si è rinchiusa entro forme particolari accentuatamente estetiche, ora si è avvicinata alla produzione scritta non letteraria. In relazione a questo, i generi documentaristici intermedi, senza perdere la loro specificità, senza diventare romanzo oppure racconto, potevano allo stesso tempo essere opere di arte della parola (proizvedenija slovesnogo iskusstva) (Ginzburg 1994, p. 16).

Lo storico vi ricorre di norma eliminando o riducendo la portata delle «forme accentuatamente estetiche» nella convinzione che si tratti di una conoscenza estranea alla sua disciplina, oltre che di difficile traduzione nel suo metatesto.

Un certo numero di cronache, diari, taccuini superano però il livello intermedio della tensione verso l’arte e ambiscono, anche perché scaturiti da chi possiede il potere di “trattare” la parola, a entrare nella letteratura. E talvolta vi riescono. Giorni maledetti di Ivan Bunin (Voland 2021) è tra questi. Resoconto degli anni 1918-1919 trascorsi prima a Mosca, poi a Odessa, arricchito da escursioni nel periodo pre-rivoluzionario e nei giorni della rivoluzione di Febbraio, la credibilità della narrazione vi si combina con la soggettività di giudizi il più delle volte riportati secondo principi che non possono essere definiti né coerenti né strutturati. Più che un “diario” è un’opera letteraria scritta in forma di diario, genere prediletto dallo scrittore, che lo praticò per quasi tutta la vita: «Il diario è una delle forme letterarie più belle – annotava il 23 febbraio 1916. Ritengo che nel prossimo futuro essa sostituirà tutte le altre» (Ustami Buninych 1977, I, p. 149). Il riferimento a tale tipologia obbediva certamente ad una insofferenza per le convenzioni e al desiderio di trovare un modo diretto e semplice per esprimere l’esperienza interiore. Ma rispondeva anche a quella peculiare disposizione russa al lirismo che Aleksandr Blok evoca in apertura del suo diario, il 17 ottobre 1911:

Tutti abbiamo bisogno di scrivere un diario o, almeno, di fare delle annotazioni, di tanto in tanto, sulle cose essenziali. È molto probabile che la nostra sia una grande epoca e che proprio a noi sia dato di trovarsi al centro della vita, cioè in quel luogo in cui convergono tutti i nessi spirituali, laddove giungono tutti i suoni (Dnevnik Al. Bloka 1928, p. 17).

Entrando nello scaffale della letteratura sulla rivoluzione, il resoconto di Bunin esce così da quello delle fonti storiche della rivoluzione e rompe il legame esistente tra i due corpora, uniti nella lingua della violenza e distinti nella parola dell’ideologia. Da qui un senso di disagio del lettore e la difficoltà a farne uso storico di fronte alla consapevolezza che i “fatti” delle «opere di arte della parola», come Giorni maledetti, sono troppo alterati dalle impressioni del soggetto e da un lessico visionario che confonde inestricabilmente il vero e il falso (fantasia e sentimento); dalla ottusità implacabile del reazionario davanti ad eventi giudicati ancor prima della loro concretizzazione; dalla visione di un popolo che sembra essere stato liberato dalle galere o da un manicomio criminale per produrre un caos primitivo nelle relazioni sociali; dall’invettiva onnipresente e talmente pressante da impedire il controllo tecnico degli enunciati, malgrado l’accurata selezione dalle annotazioni giornaliere compiuta dallo stesso autore.

L’intuizione di una incombente catastrofe, una frattura che avrà la forza del terremoto per l’«eccezionale accumularsi di fatti concretissimi», è tema privilegiato del pensiero simbolista del tempo:

Tutto su questa pianura dorme ancora, ma quando si metterà in moto, si smuoverà ogni cosa: si muoveranno i contadini, si muoveranno i boschi sui pendii, e le chiese, madonne incarnate, scenderanno dalle colline, e i laghi usciranno dalle loro rive, e i fiumi risaliranno il loro corso, e tutta la terra si muoverà (Blok 1978, pp. 42, 51).

Riprendendo quel «flusso di pensieri e presentimenti», fonte iniziale di un «sentimento misto di angoscia, orrore, penitenza, speranza», Blok riuscirà a tradurlo in forma di melodica attesa: «Il torrente penetrato sotto terra, scorrendo silenziosamente nel profondo e nell’oscurità, ora rumoreggia di nuovo; e in quel rumore c’è una nuova musica» (ivi, pp. 57, 60). In Bunin si arriva invece ad uno sconvolgimento della percezione nel vero senso della parola:

“È come se percepissi gli altri con il corpo” annotò una volta Tolstoj parlando di sé. Ebbene, lo stesso vale anche per me. Non capivano cosa intendesse Tolstoj, non capiscono cosa intenda io, motivo per cui restano a volte meravigliati della mia passione, della “parzialità”. Per i più “popolo”, “proletariato” non sono che parole, persino oggi, ma per me rappresentano sempre occhi, bocche, suoni di voci, e il discorso pronunciato durante un comizio rivela la vera e intima essenza dell’oratore (Bunin 2021, p. 75).

È una percezione del mondo, acuta e perfino dolorosa, sempre mediata attraverso «gli odori, i colori la luce, il vento, il vino, il cibo» (Ustami Buninych 1981, II, p. 75).

Per Bunin, «la marea umana che invade le strade è fisicamente insopportabile, non ne posso più di questa marmaglia bestiale, sono sfinito»; le dimostrazioni sono «bandiere, manifesti, musica – chi tira da una parte, chi dall’altra, e in centinaia di gole il grido […], voci sepolcrali, primitive. Le donne hanno volti da ciuvasce e mordvine, gli uomini, uno meglio dell’altro, hanno facce criminali, alcuni sembrano arrivati direttamente da Sachalin. […] Queste facce non hanno bisogno di nessun marchio, parlano da sole» (Bunin 2021, pp. 72, 50). Dalla «paura delle facce» in circolazione viene il sentimento che la fantasia sia una sventura e la salvezza risieda nella «debolezza dell’immaginazione, della capacità di prestare attenzione, del pensiero» (ivi, pp. 58-59, 80). A Blok che sente la musica della Russia e della rivoluzione «come una bufera», Bunin risponde di essere nell’attesa estenuante di «fiumi di sangue, un mare di lacrime»; un’attesa che «non è vita» (ivi, pp. 73, 75).

Disponiamo di una notevole porzione di scritture che – nelle scienze umane del tempo – assumono la stessa configurazione discorsiva su “rivoluzione e popolo”, inclinando la sequenza degli eventi verso il compimento di una crisi epocale, al tempo stesso materiale e fisica. Se, per esempio, esaminassimo la rappresentazione della rivoluzione come “catastrofe biologica” proposta dal sociologo Pitirim A. Sorokin, potremmo facilmente isolare enunciati simili a quelli di Bunin. Sorokin riuscì infatti a fondere osservazioni personali, anch’esse espresse in forma di diario, con un’analisi finalizzata alla costruzione di un coerente sistema logico di nuove conoscenze, aggregate e disaggregate con metodologie di equivoca provenienza: curve di natalità e mortalità, morbilità e salubrità; coefficenti di epidemia, pandemia e carestia; indici di moralità (anche sessuale) pubblica e privata; statistiche sulla delinquenza minorile e la grande criminalità; relazione tra denutrizione e dissoluzione dei rapporti umani. Ne scaturì un’opera insolita e ambigua: Sociology of Revolution (1925), sorta di archivio degli effetti di decadimento e degenerescenza provocati nell’organismo culturale russo da guerra e rivoluzione.

Gli enunciati di Bunin sono, a loro volta, influenzati da una ricca letteratura europea che inanella in uno schema politico e polemico le teorie della degenerazione e dell’antropologia criminale alla ricerca di una spiegazione per l’«informe» (Bunin 2021, pp. 183-185). La crisi russa è decadenza della Russia in quanto Stato, ma anche scatenamento degli istinti più selvaggi del popolo, sanguinoso prologo ad altre calamità: «Ciò che in buona sostanza caratterizza le rivoluzioni è una rabbiosa smania di messinscena, di spettacolo, di artificiosità, di farsa. Si ridesta la scimmia annidata in ogni essere umano» (ivi, p. 69). È una visione della vita con «il più profondo disincanto», «l’ottundimento e il senso di repulsione verso ogni cosa», perché frutto di un’«avversione che provoca dolore fisico» o «sensazione di poter cadere», di fronte a volti in cui «non vi è traccia di normalità, di semplicità, quasi tutti ripugnanti» (ivi, pp. 96, 106, 191). Può così accadere che sia l’«autocarro» la presenza costante nel ricordo di Bunin: «Bestione rigurgitante da principio folle isteriche e un’oscena ciurma di disertori, quindi ergastolani di prima scelta», chiamato ad incarnare «la rozzezza della cultura contemporanea e del suo “pathos sociale”» (ivi, pp. 79-80).

E dalle «inezie della produzione letteraria, dagli angoli più nascosti, dalle pieghe» (Tynjanov 1968, p. 27), può persino giungerci una nuova forma, tratta direttamente da eventi reali, che da “fatto della vita quotidiana” si trasforma in “fatto letterario”.

Riferimenti bibliografici
A. Blok, L’intelligencija e la rivoluzione, Adelphi, Milano 1978.
P.N. Medvedev, a cura di, Dnevnik Al. Bloka, Izd-vo pisatelej v Leningrade, Leningrad 1928.
L. Ginzburg, La prosa psicologica, il Mulino, Bologna 1994.
P. Sorokin, The Sociology of Revolution, J.B. Lippincott, Philadelphia 1925.
Ju.N. Tynjanov, Avanguardia e tradizione, Dedalo, Bari 1968.
M. Grin, a cura di, Ustami Buninych. Dnevniki Ivana Alekseevica i Very Nikolaevny i drugie archivnye materialy, voll. I-III, Posev, Frankfurt am Main 1977-1982.

Ivan Alekseevič Bunin, Giorni maledetti, Voland, Roma 2021.

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