Lo scorcio di una foresta illuminata dalla luce ancora debole dell’alba lascia intravedere, tra i giochi di luce e ombra generati dal lieve muoversi delle fronde degli alberi, un insieme danzante di insetti luminosi che solcano l’aria liberamente. Con un movimento che sembra quasi imitare quello delle creature, l’inquadratura volge verso il basso, rivelando la presenza della piccola scultura di un gatto che cammina, adagiata tra i fili d’erba. Dietro a questa figura si nasconde un piccolo gatto nero, che attraversa il prato con andatura sicura: seguiamo il suo passo mediante un lento travelling che svela un percorso disseminato di tante altre statue che lo ritraggono, finché non si dirige all’interno di una casa abbandonata in cerca di riposo.
Questa scena sancisce l’inizio di Flow – Un mondo da salvare, film d’animazione diretto da Gints Zilbalodis. La passeggiata di apertura del protagonista del film è paradigmatica della sua condizione di esistenza iniziale: il gatto è inserito all’interno di una routine in cui alla caccia solitaria segue sempre il ritorno a casa, in un ritmo circadiano che risente ancora dell’adattamento alla scansione temporale dettata dagli esseri umani con cui abitava. La permanenza della casa fa sì che essa diventi il nucleo intorno al quale il gatto può orbitare senza mai affacciarsi al di fuori dei confini che delimitano lo spazio da lui conosciuto, collocandolo in una situazione di stanzialità che è caratteristica della domesticità e della vita umana. Tale radicamento è reso evidente dalla presenza delle statue che, oltre a circoscrivere il suo territorio di appartenenza, consacrano la cristallizzazione del gatto entro il perimetro dell’ambiente domestico.
L’irruzione violenta di un’inondazione costituisce la spinta attraverso la quale l’animale viene sottratto a questo regime temporale che lo àncora a un’esistenza umanizzata: il flusso di acqua inghiotte completamente la porzione di spazio che è abituato ad attraversare, e contemporaneamente stabilisce il suo ingresso in un divenire animale. In tal senso, il fluire acquatico delinea un processo di destituzione del dominio dell’azione, prescrivendo il passaggio a una progressione temporale scandita non da una concatenazione causale di eventi, bensì da una successione di incontri inattesi.
La possibilità di attivare l’arco di trasformazione del gatto risiede proprio nella capacità di accogliere l’imprevisto, dettata inizialmente da una minaccia alla sua sopravvivenza. L’accesso a un’imbarcazione lo salva dal vertiginoso alzarsi del livello dell’acqua, ma lo espone al contatto forzato con il membro di un’altra specie. Questo primo incontro pone il gatto in una condizione per lui inedita: l’impossibilità di fuggire produce una vicinanza che consente lo scambio di sguardi, da cui scaturisce la conoscenza dell’altro. Inizialmente, le forme di vita che circondano il gatto sono prede da uccidere o predatori da cui fuggire, con cui qualsiasi forma di prossimità costituisce un pericolo. Tale condizione è resa evidente già a partire dalla prima inquadratura: il protagonista osserva il suo riflesso in uno specchio d’acqua perché è in grado di rivolgere uno sguardo attento solo a sé stesso, non vede altro al di fuori di sé. Il suo arco trasformativo, infatti, giungerà a compimento solo quando si aprirà a vedere l’altro e a farsi vedere: «Non esisto, finché l’altro non mi guarda. La prima operazione necessaria, pertanto, consiste nell’esporsi all’altro, o, meglio ancora, alla possibilità dell’altro» (Cimatti 2024).
La capacità di vedere l’altro sviluppata dalle creature che via via iniziano a popolare questa arca senza Noè si stabilisce nella completa assenza di un linguaggio, ed è radicata nella maturazione progressiva della capacità di comprendere i codici comunicativi delle altre specie. La scomparsa dell’umano favorisce la formazione di un particolare ecosistema in scala ridotta che non è organizzato secondo una struttura gerarchica, ma risponde semplicemente all’imperativo della sopravvivenza, a cui ogni animale contribuisce mediante i tratti caratteristici della propria specie.
L’immagine animata è ciò che ci consente di assistere a questi processi attraverso uno sguardo estremamente ravvicinato, che segue gli animali passo dopo passo posizionandosi alla loro altezza, e asseconda la fluidità del loro movimento mediante lunghe inquadrature che simulano l’effetto della camera a mano. Difatti, il processo di realizzazione del film, come spiegato dal direttore dell’animazione Léo Silly-Pélissier, è cominciato dalla creazione di un vastissimo ambiente percorribile, che ha permesso di pianificare dei movimenti di macchina al suo interno ancor prima di rifinire l’animazione dei personaggi.
L’animazione fotorealistica concorre nella trasmissione di un senso di naturalezza e adesione al reale; ciononostante, la restituzione di uno sguardo animale enunciata sul piano visivo, sembra porsi in contrasto con l’intenzione tematica espressa sul piano narrativo: nella formazione del microcosmo che sopravvive all’interno della barca sembra intervenire un processo di costruzione di nicchia (Odling-Smee, Laland, Feldman 2003) che non si basa su caratteri genetici, ma presenta dei tratti culturali. La sopravvivenza del gruppo è favorita da un sistema di comunicazione ma anche dalla dotazione e dall’uso di supporti, che è invece caratteristica dell’uomo (Ferraris 2021): il protagonista, che custodisce ancora il lascito della specie umana, è colui che mostra agli altri animali come direzionare l’imbarcazione, attivando un processo di imitazione e apprendimento che è tipico di una nicchia culturale.
Nonostante la bellezza delle immagini animate e la notevole impresa narrativa di raccontare il mondo animale in assenza di dialoghi, nel finale il film conduce i personaggi alla salvezza attribuendo loro delle qualità umane. Introducendo una distinzione definitiva tra loro e la popolazione animale che li circonda, definisce le loro capacità di sopravvivenza a partire da caratteristiche esclusive dell’uomo. L’epilogo di Flow sembra dunque tradire le proprie premesse: assegnando categorie umane all’esperienza animale, suscita la nostra empatia per qualcosa che ci assomiglia, precludendoci l’opportunità di avvicinarci ad un’altra forma di vita (Cimatti 2024).
Riferimenti bibliografici
F. Cimatti, L’occhio selvaggio. Sul lasciarsi vedere, Quodlibet, Macerata 2024.
M. Ferraris, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Bari-Roma 2021.
F. J. Odling-Smee, K. N. Laland, M. W. Feldman, Niche Construction. The Neglected Process in Evolution, Princeton University Press, Princeton 2003.
Flow – Un mondo da salvare. Regia: Gints Zilbalodis; sceneggiatura: Gints Zilbalodis, Matīss Kaža,; fotografia: Gints Zilbalodis; animatori: Léo Silly-Pélissier; musiche: Gints Zilbalodis, Rihards Zaļupe; produzione: Dream Well Studio, Take Five, Sacrebleu Productions; distribuzione: Theodora Film; origine: Lettonia, Francia, Belgio; durata: 84’; anno: 2024.